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L'ALPINO – Editoriale: RADICI

Martedì, 31 Ottobre 2006 –

No, non è rinunciando alla nostra identità – fenomeno che colpisce solo le culture deboli – che dobbiamo affrontare la multiculturalità, ma con la difesa di ciò che siamo, nello spirito di ciò che siamo sempre stati e vogliamo essere.

Martedì, 31 Ottobre 2006 –
 
In un precedente editoriale avevamo stigmatizzato la mancanza del riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa nella bozza della Costituzione della Comunità Europea. Le ragioni di questa esclusione sono molteplici: si voleva difendere una laicità ereditata dall’illuminismo, si preferiva non costruire presupposti per allontanare dalla Comunità i Paesi del Mediterraneo di storia e cultura diverse dalla nostra.

Questo oscuramento delle nostre radici rischia tuttavia di allontanare gli europei dall’Europa: di fronte alle grandi migrazioni dal continente africano e asiatico scopriamo che una distorta concezione dell’accoglienza rivela il lato debole d’una cultura, la nostra, che è andata progressivamente perdendo valori fondanti e, dunque, identità.

Tutelare la nostra identità non significa rifiuto dell’accoglienza, ma adeguare i diversi modelli di vita degli ospiti al nostro modello di vita, perseguendo una integrazione non certo semplice né breve, che consenta all’Europa, e all’Italia, di restare quelle che sono.

* * *

Si dirà: cosa c’entra tutto questo con il nostro essere alpini? Ma gli alpini non sono forse una forza viva, ricca di tradizioni e valori, punto di riferimento nella società ma, più specificatamente, in mille e mille paesi in cui c’è un gruppo associativo? Gli alpini sono a buon diritto cittadini del loro tempo, perché hanno un grande passato, sono figli di un’eredità costruita attraverso guerre, terremoti, devastazioni e ricostruzione; fatta di senso del dovere, fedeltà alle istituzioni e solidarietà. Solidarietà che significa anche – vorremmo dire soprattutto – di comportamento: nelle missioni di pace dei nostri reparti all’estero, nell’ambito associativo, sul lavoro, in famiglia.

Ecco perché è nata una discussione che ha coinvolto un po’ tutti i nostri iscritti quando è stata censurata la Preghiera dell’Alpino. Diciamolo: quel taglio “ufficiale” della frase che si riferisce alla difesa della “nostra civiltà cristiana” non ci è andato giù e – per la prima volta nella nostra storia non allineati con l’Ordinariato – abbiamo deciso di pregare, durante le nostre cerimonie, come i nostri Padri e come ci piace.

Del resto, nulla è più personale della preghiera. Ma quel “taglio”, più che il segno d’una diversa sensibilità dell’accoglienza, viene sentito come una discontinuità dell’essere alpini, del loro senso di carità e di pietà nel significato etimologico e umano più profondo. Rimossa dalla nuova versione della preghiera anche l’espressione “rendi forti le nostre armi”, armi che vanno intese – in senso ampio – a difesa di ciò che siamo, senza odio o desiderio di sopraffazione.

Vorremmo ricordare, a questo proposito, le parole del colonnello Mario Giacobbi, comandante del 2° reggimento Alpini al rientro dalla missione in cui sono caduti sei suoi alpini, uno in un incidente di pattuglia e cinque uccisi in due attentati: “Un pensiero all’Afghanistan. A questa nazione così lontana e cosi diversa dalla nostra cultura, così sfortunata ma dal popolo fiero che merita un futuro migliore. Nutriamo la speranza che col contributo nostro e dei futuri contingenti il suo desiderio di pace e stabilizzazione si compia e che finalmente abbiano il sopravvento il dialogo e la concordia”.

Una risposta di rispetto e civiltà. Un grande esempio di spirito alpino che fa la profonda differenza fra il militarista e chi si impegna, anche a rischio della propria vita, per contrastare la violenza che purtroppo dilaga in tante aree del mondo.

No, non è rinunciando alla nostra identità – fenomeno che colpisce solo le culture deboli – che dobbiamo affrontare la multiculturalità, ma con la difesa di ciò che siamo, nello spirito di ciò che siamo sempre stati e vogliamo essere.