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A Padre Marco patrono del VSG

Preghiera scritta dal Veneto Serenissimo Governo in onore del Beato Marco d’Aviano. 

Recitata la prima volta durante la messa in cui il VSG si è affidato alla guida del Beato.

 

a Padre Marco
Patrono del Veneto Serenissimo Governo

Beato Marco
Il Veneto Serenissimo Governo, erede e continuatore della storia, tradizioni e cultura della Veneta Serenissima Repubblica, in questo momento di grave pericolo per la nostra Civiltà, Cristianità, la nostra Storia e Cultura, memori del fatto che Tu con la Tua preghiera e il Tuo esempio salvasti l’Europa Cristiana e la tua Serenissima Patria dal flagello ottomano
guidaci
per impedire che le basiliche di San Pietro, di San Marco e gli altri luoghi a noi sacri siano trasformati in “scuderie”.
Il Veneto Serenissimo Governo Ti affida la propria mente, la propria energia, la propria vita, per la difesa degli stessi valori che Tu salvasti a Vienna, a Buda, a Belgrado.
Beato Marco proteggici e guidaci lungo la difficile strada.
Intercedi e invoca per noi, indegni, l’aiuto di Dio, della Vergine Maria, di San Gabriele Arcangelo.
“Io credo, io credo fermamente, Dio mio, io credo fermamente, fermamente”.

 

13 agosto 2003 ore 11.00
Santuario di S. Romedio
Val di Non (TN)



Celebrazione per la battaglia di Custoza e per i fatti del 1866:non dimentichiamo l’aggressione.

Quella di Custoza è una celebrazione che ogni anno organizza il VSG in ricordo dei Soldati e amrinai Veneti caduti sul campo d’onore di Custoza, Lissa e Sadowa.

 

 

Il Veneto Serenissimo Governo, erede e continuatore della storia, tradizioni e cultura della Veneta Serenissima Repubblica, ricorderà sabato 28 giugno 2003 alle ore 11.30 presso l’ossario ai Caduti della guerra del 1866 a Custoza, comune di Sommacampagna (VR), i luttuosi fatti che sconvolsero il Veneto nel 1866.
Ritroviamoci tutti a commemorare i Soldati e Marinai Veneti caduti sul campo d’onore di Custoza, Lissa e Sadowa.
Dimostriamo che l’occupazione italiana attraverso l’illegale referendum del 1866 non ha sopito l’orgoglio di essere Veneti e l’appartenenza alla mai morta Veneta Serenissima Repubblica.
Non dimentichiamoci dei crimini di cui si sono macchiati i Savoia: facciamo si che questa sia la prima di molte ricorrenze in cui ci si batterà contro il ritorno nella Veneta Patria di questa dinastia di Re criminali.
Il destino è nelle nostre mani, diamo un primo segnale a chi non vuole il riscatto del Veneto: troviamoci tutti a Custoza il 28 giugno.
Venezia, 16 giugno 2003                                       

Per il Veneto Serenissimo Governo
Il Vicepresidente
Luca Peroni



MARCO D’AVIANO: eroe della Serenissima

Breve storia dell’età giovanile di Marco d’Aviano. Poi diverrà uno dei più grandi difensori dell’Europa dall’avanzata dell’islam.

Oggi è annoverato tra i più grandi eroi della Serenissima, ed è patrono e protettore del Veneto Serenissimo Governo.

Marco d’Aviano,  nacque ad Aviano (Udine) il 17 novembre 1631 ed ebbe, al Battesimo, il nome di Carlo Domenico. II ragazzo un giorno, al rientro degli allievi da una passeggiata, mancò all’appello: era fuggito per andare a convertire i Turchi. Dopo due giorni di cammino batté spossato alla porta dei Cappuccini di Capodistria. Il 21 novembre 1648, egli vestì l’abito nel noviziato di Conegliano, mutando il nome di Battesimo in quello di Marco. Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 18 settembre 1655, cominciò subito, non senza qualche timore, l’apostolato della parola.
Si recò a Linz, dove era atteso dall’imperatore ed iniziò così quel rapporto tra Marco e Leopoldo I. L’imperatore trovò nel cappuccino il proprio confidente e consigliere. Le vicende prepararono Marco al grande compito che caratterizza il secondo periodo della sua vita, la lotta contro i Turchi. Questi nella loro avanzata si erano spinti fin sotto Vienna. Marco si portò al campo imperiale, vinse le riluttanze, appianò le divergenze, animò i soldati con l’incrollabile richiamo all’aiuto divino, e Vienna fu liberata (1683).
    Con la forza della volontà e con il prestigio riuscì a vedere la sconfitta definitiva dell’Islam in Europa con le battaglie di Budapest (1684-1686), Neuhäusel (1685), Mohacz (1687) e Belgrado (1688), fino alla pace di Karlowitz (1689). Nel 1684 era riuscito a far entrare nella Lega Santa anche Venezia.
 Nel 1699 si sobbarcò ad un ultimo viaggio a Vienna: «Non ne, posso più – disse – ma il Papa comanda». Era affetto da un tumore che lo consumava. Il 25 luglio si mise a letto ed il 13 agosto morì, assistito dall’imperatore, il quale in ginocchio pregò fino alla morte  di Marco. Dopo solenni funerali, il suo corpo trovò riposo definitivo (1703 ) nella cripta dei Cappuccini di Vienna, accanto alle tombe imperiali.

 

La guerra di Candia: un episodio che segnò la vita di Marco d’Aviano
Ancora una volta erano i turchi che venivano ad agitare la sua mente di ragazzo. L’intrepida Repubblica di Venezia stava difendendo, dall’estate del 1645, l’ultimo suo grande possedimento nei mari di levante: l’isola di Creta. Ed era una lotta titanica, contro un vero gigante: lotta combattuta senza esclusione di colpi, per terra e per mare. I veneziani si erano sforzati, fin da principio, di dare a quel conflitto un carattere di crociata per impegnare anche le altre grandi potenze europee in suo aiuto. Ma queste, tuttora sconvolte dalla guerra dei trent’anni, non poterono o non vollero assecondarla nel suo tentativo.
L’assecondarono invece le popolazioni cristiane, specialmente quelle che, come il Friuli, si trovavano più esposte a eventuali assalti della mezzaluna. Seguivano con trepidazione le alterne vicende della guerra, ascoltando con commozione le gesta dei soldati veneti, come quella del capitano Biagio Zuliani, il quale, vedendo di non poter più difendere un isolotto presso il porto di Canea, piuttosto di arrendersi preferì dar fuoco alle polveri e far saltare in aria la fortezza, rimanendo sepolto con i suoi ottanta commilitoni, ma seppellendo insieme sotto le macerie mezzo migliaio di nemici. Non era infrequente il caso di uomini che, animati da fervore religioso, si arruolavano sotto le insegne di San Marco. E non mancavano perfino dei ragazzi che fuggivano di casa per recarsi in levante. Se quelle vicende commovevano tanti animi, si comprende come trovassero un’eco pronta e profonda anche nell’animo del giovane Carlo. A poco a poco, anzi, quell’eco si trasformò per lui in un richiamo sempre più forte e imperioso, in un’idea sempre più ossessiva e irresistibile, fino a divenire, nella sua convinzione, la voce stessa di Dio: partire per l’oriente, combattere con gli ardimentosi Veneti, versare il sangue per la fede.
Un giorno, in collegio, Carlo Cristofori fu cercato invano: era scomparso. Affascinato dal suo sogno, aveva eluso ogni sorveglianza ed era fuggito per l’oriente. E ora, in cammino verso la meta, si sentiva già un piccolo crociato, votato alla lotta e al martirio. La gioia che gli cantava in cuore, lo disponeva più che mai alla generosità, e regalò al primo povero anche gli ultimi spiccioli che gli rimanevano in tasca. Peccato soltanto che l’oriente non si trovasse dietro la prima curva della strada o oltre la gobba del primo colle. Giunto a Capodistria, dove sperava d’imbarcarsi su una nave della Repubblica, si trovò al verde di tutto, e andò a bussare alla porta dei cappuccini: quelli almeno li conosceva e un pezzo di pane gliel’avrebbero dato. Fu più fortunato di quanto osasse sperare. Il superiore del convento era un vecchio amico di famiglia; e, da vero amico, lo accolse cordialmente, gli rimise a tacere lo stomaco, e soprattutto gli diede un saggio consiglio: di tornare a casa. Voleva andare in oriente? E perché, allora, non farsi cappuccino? Anche i cappuccini, laggiù, stavano combattendo una loro eroica battaglia spirituale a fianco dei soldati cristiani. E sapevano morire, a decine, vittime della carità e della scimitarra turca. Dovette essere, per Carlo, un’idea illuminante, e dovette apparirgli molto più realistica dei suoi fantastici sogni di adolescente. Solo che per attuarla gli era necessario un po’ di pazienza. Tornò a casa, forse accompagnato dallo stesso padre superiore; e dopo esser rimasto circa due anni in famiglia, nel 1648 diede un addio a tutto ed entrò fra i cappuccini. Aveva diciassette anni.

 

Il 27 di Aprile 2003  viene beatificato Marco d’Aviano, fulgido eroe della Serenissima che si batté con tutto se stesso per contrastare l’invasione islamica d’Europa.
Il Veneto Serenissimo Governo invita tutti i Popoli che si rifanno ai veri valori cristiani a partecipare a questo grande momento di unità, e di riscoperta d’identità europea.

 

Demetrio Serraglia
Componente del Veneto Serenissimo Governo



La lega di Cambray

Studio di Andrea Viviani sulla Lega di Cambray.

Nel 15° secolo Venezia è una potenza Marittima incontrastata, i commerci con l’Oriente continuano ad accrescere la ricchezza dello stato, le guerre con Genova sono finite e il mediterraneo è relativamente sotto controllo grazie alle navi Venete che abitudinariamente lo solcano svolgendo un lavoro di polizia navale. Nello stesso periodo comincia però l’ascesa di altre potenze marittime come quella Turca prima e successivamente quella Spagnola che fra l’altro, al contrario di Venezia, possono disporre di grandissimi territori da cui ricavare le materie prime per aumentare le proprie capacità. E’ questo uno dei motivi per cui verso la metà del 1300 Venezia comincia ad interessarsi alla terraferma Veneta divisa in vari possedimenti feudatari continuamente in guerra fra loro per la supremazia. Cosi con Treviso nel 1339 e, successivamente, con le dedizioni di Verona, Vicenza e Padova nei primi anni del 1400, la repubblica Veneta diventa il paese più potente in italia e fra i più temuti in Europa. I monarchi Europei non vedono di buon occhio quest’improvviso allargamento di Venezia, cosi con la scusa di una possibile guerra contro il turco, i plenipotenziari di Re Luigi XII e quelli di Massimiliano d’Asburgo, firmano a Cambray un’alleanza alla quale sarebbero stati ammessi il Re d’Ungheria il Re d’Aragona e il Papa, con l’unico scopo di spartirsi le terre Venete e ridimensionare Venezia.
La guerra comincia male per la Serenissima che subisce la prima sconfitta: è il 14 maggio 1509 siamo ad Agnadello, i due eserciti contano circa trentamila uomini per parte, dopo poche ore di aspro combattimento si conteranno più di quattordicimila morti.
Fino ad allora Venezia si serviva dei nobili locali per esercitare il governo della terraferma, tenuti sotto controllo dai governatori Veneziani per evitare soprusi. Alla notizia della sconfitta di Agnadello gli stessi nobili che la Serenissima aveva messo a capo della loro terra si rivoltarono contro Venezia e si schierarono dalla parte degli Imperiali, mentre i pochi funzionari Veneziani non riuscirono, tranne a Treviso e nel Friuli, a raccogliere l’appoggio della popolazione, che non poté far altro che subire il volere della borghesia. Intanto l’armata Veneta fu costretta ad arretrare fino ad arrivare verso l’acqua, verso Mestre e Venezia. Nel giro di qualche mese però e con l’instancabile apporto del procuratore di San Marco Andrea Gritti, che per ben tre anni cavalcherà in lungo e in largo il Veneto per incitare i suoi uomini e la popolazione, l’armata riesce a riorganizzarsi tanto da spingersi verso Padova e Treviso, grazie anche alle notizie di insurrezioni che provenivano dall’entroterra.
A differenza della classe alta delle città soggette, contadini e artigiani avevano trovato motivi di soddisfazione sotto il Governo Veneziano, mentre l’arroganza e la ferocia dei soldati Imperiali li spingeva alla rivolta. Nell’agosto del 1509 quattro contadini sorpresero il Marchese di Mantova nella sua tenda senza scorta, questi per scampare alla cattura offri ai quattro uomini una grande somma di denaro, ricordiamo che nel millecinquecento la popolazione contadina era tra le più umili e la possibilità di intascare dei soldi cosi facili non si sarebbe ripresentata mai più nella loro vita. La dedizione e l’amore verso la Republica Veneta però era più forte del bisogno di denaro e cosi consegnarono alle autorità Venete il povero Marchese, l’azione fu premiata generosamente: 100 ducati l’anno e una dote di altri 100 ducati per la sorella del contadino che aveva assunto l’iniziativa, 48 ducati l’anno per gli altri, l’esenzione da ogni "angaria reale et personale" per tutti e quattro, per le famiglie e per gli eredi in perpetuo, nonché l’autorizzazione a portare armi da difesa anche nella stessa Venezia. Lo stesso Machiavelli, che si trovava a Verona come osservatore militare del governo Fiorentino, si rese conto della dedizione della popolazione Veneta verso la Republica: "è impossibile che questi Re tenghino questi paesi con questi paesani vivi."
Intanto L’armata si riorganizzava a Mestre e a Treviso con il Gritti che continuava a rincuorare le truppe allo sbando, le misure di emergenza decretate dal consiglio dei dieci, permisero l’invio, dalla Zecca Veneziana al campo, di denari sufficienti a permettergli di tenere insieme i resti dell’esercito. Dato che non c’era la possibilità di raccogliere contante con la necessaria celerità, furono offerti premi speciali a coloro che avrebbero aperto i loro forzieri e portare denaro oppure gioielli e posate per fonderle e farne moneta.
Intanto si metteva a punto il piano per liberare Padova e il 18 luglio le reclute provenienti da Venezia si unirono con le forze comandate da Andrea Gritti provenienti da Treviso e ripresero la città del Santo. Appena ripresa, la città dovette difendersi dall’attacco dall’imperatore, giunto tardivamente con la più formidabile artiglieria mai messa in campo per un assedio, i difensori seppero respingere le truppe imperiali grazie ai molti volontari arrivati da Venezia, Massimiliano d’Asburgo fu costretto a lasciare Padova. Frattanto il papa e il re di Spagna mutarono fronte e la guerra si trasformo in una lotta per cacciare i Francesi, Venezia a sua volta con l’arma della diplomazia, di cui era indiscussa maestra, riuscì e riguadagnare Brescia e Verona, dopo sette anni di guerra, in cui molte delle sue città furono messe a ferro e fuoco, Venezia recuperò nel 1516 gran parte dei territori guadagnati in terraferma quasi un secolo prima.
Possiamo ben dire che nel 1500 tutta Europa era alleata per distruggere la Serenissima, ma nonostante questa che poteva sembrare una lotta impari e senza speranze, il Governo Veneto seppe resistere difendendo se stesso e il proprio popolo. A cinquecento anni di distanza dobbiamo prendere quell’evento come esempio per continuare la lotta contro il regime che ci opprime, che sarà forse più subdolo, ma sicuramente non è più potente dell’intera Europa della lega di Cambray.

Andrea Viviani
Cancelliere del Veneto Serenissimo Governo




Islam: gli insegnamenti della storia

Un anno dopo l’undici settembre 2001 cos’è cambiato nella storia.

 

Un anno dopo l’11 Settembre, dopo infinite discussioni e trasmissioni televisive varie incentrate a spiegarci che cosa sia il vero Islam, ci è parso giusto dire la nostra e vogliamo farlo non accennando a qualche assurdo ideale razzista e nemmeno con lo squallido "liberismo" dei politici che da troppo tempo ha invaso la mentalità della civiltà Europea. Facciamo parlare la storia:  naturalmente avendo alle spalle secoli di storia Veneta, dove la rivalità tra noi Cristiani e il mondo Mussulmano in certi momenti ha avuto risvolti drammatici, crediamo giusto ricordare una delle pagine più gloriose del nostro passato.
Nel 1570 l’isola di Cipro, possedimento Veneto nel Mediterraneo, è investita dall’armata turca che vuole riprendere il controllo di quell’essenziale nodo strategico. Cadute Nicosia e Kyrenia, gli assalitori puntano su Famagosta, protetta da un robusto sistema di fortificazioni e guidata dall’inflessibile volontà del governatore Marcantonio Bragadin. La sproporzione delle forze in campo è schiacciante: 250000 uomini contro solo 7000 difensori, ma la tenacia e l’assoluta fede del governatore nelle istituzioni Venete fece sì che la vittoria dei Turchi risultò molto più difficile e dispendiosa di quanto loro stessi avessero mai previsto. Dopo quasi un anno di assedio, con le relative privazioni, quel coraggio e tenacia dimostrata da tutti gli ufficiali e abitanti dell’isola iniziò a vacillare, alcuni comandanti cominciarono a pensare che forse era arrivato il momento di gettare la spugna e arrendersi al nemico, sperando in un salvacondotto. Mentre il Governatore Bragadin faceva il possibile per convincerli del contrario, e che non ci si poteva fidare dei Turchi, il Vice comandante perugino Baglioni, tradendo la fiducia del Governatore e con l’avvallo del capo del consiglio cittadino, iniziò a pendere contatti con il portavoce del Comandante Turco per firmare una resa, e poter lasciare l’isola incolumi. Bragadin sapeva che se Venezia non era ancora intervenuta in loro aiuto c’era sicuramente un buon motivo, ciò lo aveva scritto anche alla sua famiglia dicendo che per nessun motivo dovevano dare la colpa delle sue sofferenze al Governo Veneto, che sicuramente sapeva della gravità della situazione e avrebbe preso le scelte più opportune. Infatti, Venezia ultimava gli ultimi preparativi per l’offensiva e stava convincendo gli ultimi sovrani d’Europa a stringere un’alleanza contro l’espansionismo Islamico per bloccarlo una volta per tutte. Intanto a Famagosta la situazione era disperata, i viveri erano ormai finiti e il morale a pezzi, in queste circostanze per Bragadin fu impossibile resistere alle istanze dei suoi ufficiali e della popolazione che chiedeva la resa, il comandante Turco dava la sua parola che se avessero consegnato la città senza opporre resistenza avrebbe risparmiato loro la vita lasciandoli partire da Cipro, e cosi dopo estenuanti insistenze Bragadin fu costretto ad arrendersi. Purtroppo la sua malafede nei confronti dei Turchi non poteva essere più azzeccata, e quando i vincitori si accorsero che della città e dei suoi averi non era rimasto più nulla, cominciarono a vendicarsi sulla popolazione, gli ufficiali furono uccisi all’istante e per primo il vice comandante Baglioni secondo la logica che chi tradisce una volta lo può fare una seconda. A Bragadin prima gli tagliarono le orecchie e dopo giorni di indicibili sofferenze lo scuoiarono vivo facendolo morire il più lentamente possibile. Il sacrificio di Bragadin però non fu vano: l’anno perso dai turchi nell’assedio di Famagosta permise alla flotta Veneta e agli alleati Europei di prepararsi per la battaglia finale che si svolse il 7 Ottobre 1571 a Lepanto e vide la schiacciante vittoria cristiana che portò molti anni di pace tra il mondo occidentale e quello Mussulmano, e fu l’inizio del declino dell’espansionismo islamico nel Mediterraneo.
La morale di tutto questo è che per chi manovra l’espansionismo Islamico noi siamo considerati infedeli e come tali non meritiamo nessun rispetto, ricordiamo che nei paesi Mussulmani l’infedele non ha alcun diritto nemmeno il diritto alla difesa nei loro tribunali, qualsiasi promessa loro ci facciano, al momento opportuno, ne siate certi, non ci penseranno due volte a rimangiarsela e scatenarci contro tutto l’odio di cui sono capaci. Per finire, rammentiamo che loro seguono una legge fondamentale nella loro vita, quella della natura, e cioè che il più forte vince e il più debole deve soccombere, dimostriamo di essere più forti e avremo qualche speranza, altrimenti il sacrificio di Marcantonio Bragadin e di tanti altri nostri antenati, sarà servito a poco.

Andrea Viviani
Cancelliere del Veneto Serenissimo Governo



Sadowa 1866: lettera del ten. Garbin

Episodio della guerra austro-prussiana del 1866.

 

Per rinfrescare la memoria di quanti in Italia “festeggiano” le varie Custoza, San Martino e Solforino, ecc., pubblichiamo la lettera del giovane tenente bassanese Garbin, arruolato nel reggimento Haugwitz battutosi con onore in Boemia. Con lui molti altri veneti seppur coscritti, difesero la propria terra dalla casa Savoia, che minacciava di diventare un padrone ben peggiore degli Asburgo.
“Mi trovai anch’io involto nel fuoco nemico dopo pranzo; io vidi cadere al mio fianco a centinaia i miei compatrioti italiani, e per darti un’idea della strage, della mia compagnia eravamo 4 ufficiali e 166 uomini. Nel corso dei 15 minuti tutt’al più non esistevano altri che io e 35 uomini. Le palle mi volavano attorno come la grandine.
In piena ritirata di corsa, con le palle nemiche che fischiavano alla spalle e sopra la testa, fra mille cadenti per la via, tra la continua strage prendo anch’io la strada verso Konigratz: nella fortezza era impossibile entrare: non resta altro che o farsi uccidere dai Prussiani o arrischiare di annegarsi nelle onde dell’Elba.
Guadato il fiume… fui spedito con altri miei compagni e circa 200 uomini incontro al nemico con l’ordine che se venivamo attaccati, di ritirarsi passo passo dietro il paese di Prerau. Ci venne fatto di scorgere 3 rgt di cavalleria prussiana e 2 cannoni che presero posizione verso di noi ed iniziarono un fuoco terribile… ad un tratto cessa il fuoco del cannone e 2 squadroni di cavalleria vennero ad assaltarci. Io riunii la mia gente, la incoraggiai, ma la cavalleria che vedeva che noi eravamo pochi e la truppa principale era nel paese, sì defilò direttamente a quello, senza far caso alle nostre scariche…
Io  mi ritiro per altra strada… ed incontro in dessa la bandiera del mio battaglione con circa 15 uomini, un ufficiale, un medico ed il cappellano del reggimento. Domandiamo ed essi ci rispondono: “Tutto è perduto, qui c’è la bandiera e cerchiamo di portarla in salvo”.”




Austro-veneti contro italiani alla battaglia di Lissa (1866)

La battaglia di Lissa spiegata Antonio Vincenzi.
“Degli uomini di ferro su navi di legno hanno vinto degli uomini di legno su navi di ferro”


 

Una storiografia seria, priva di pregiudizi, avrebbe dovuto dare il giusto risalto al contributo veneto, anche in termini di vite umane, alla vittoria navale austriaca sulla flotta italiana nella famosa battaglia di Lissa. Nei futuri ma per ora ipotetici, programmi scolastici della scuola veneta, questo fatto dovrà essere adeguatamente illustrato, a riprova perlomeno dell’indifferenza, se non dell’ostilità, che accompagnò il processo dell’unità d’Italia nelle nostre terre.
Ne darò qui alcuni cenni, certo di incuriosire chi ignorasse anche parzialmente lo svolgimento del fatto storico.
Dobbiamo risalire prima, al momento in cui l’Austria prende il pieno possesso dei nostri territori (mi riferisco all’intero ex stato veneto); essa si trova nella necessità di dover allestire  quasi dal nulla una flotta che le garantisca il controllo dell’Adriatico. È naturale che Vienna pensi di sfruttare appieno le tradizioni millenarie di Venezia; quindi gli antichi collegi navali di quest’ultima, verranno sfruttati per formare gli ufficiali della flotta militare e mercantile. Gli equipaggi stessi saranno composti quasi totalmente da Istriani, Dalmati, Veneti di costa. Si saprà approfittare di un affiatamento secolare di queste genti, ancora memori del loro passato “illustre e vittorioso”. Proprio a voler significare una continuità, la flotta si chiamerà fino al 1852 “Cesarea Regia Marina Veneziana”, continuando a fregiarsi del leone alato.
Da notare che la lingua parlata tra gli ufficiali era, diciamo pure per forza di cose, il veneto, mentre il tedesco si userà solo nella corrispondenza con Vienna. Il veneto sarà anche usato dagli ufficiali di più alto grado nel governo delle navi, fino alla 1^ Guerra mondiale.
Lo stesso Von Tegetthof, comandante a Lissa, parlava il veneto, avendo anche lui preso il brevetto a Venezia.
La marina italiana, all’epoca di Lissa, cercava un riscatto alla poco brillante figura ottenuta dall’armata di terra a Custoza (1866). Era costituita da trentatre navi, divise in tre squadre comprendenti undici corazzate, sette navi di legno, tre cannoniere e altre navi appoggio. Orgoglio e carta vincente italiana doveva essere “L’affondatore”, costruito in Inghilterra. Era una corazzata, con torri mobili e uno sperone di otto metri di lunghezza.
La flotta Austriaca, all’epoca dello scontro, era tecnologicamente e numericamente inferiore a quella italiana; il nucleo forte era costituito da sette vecchie corazzate, meno veloci di quelle italiane. In tutto erano ventisei navi e 178 cannoni a canna liscia, contro i 252 cannoni moderni a canna rigata dell’avversario.
Gli italiani stavano tentando di fiaccare la resistenza delle fortificazioni nemiche per sbarcare a Lissa con i loro fanti di marina, finché il 20 luglio la flotta austriaca non colse quella italiana in un momento di totale disorganizzazione, che rifletteva i litigi e lo scarso affiatamento del comando supremo sardo-napoletano. Le navi italiane non riuscirono neanche a schierarsi in formazione di battaglia; mentre l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano si sta trasferendo da una nave all’altra e non è in grado di dare ordini, la “Ferdinand Maximillian”, ammiraglia austriaca, sperona subitamente il “Re d’Italia” già immobile per un colpo di cannone al timone. Un solo colpo austro veneto, colpisce poi la santa barbara della “Palestro”. La nave in pochi drammatici momenti affonda portando con sé duecentocinquanta tra ufficiali e marinai. È a quel punto, raccontano le cronache, che dai petti degli equipaggi veneti, si leva impetuoso e ripetuto il grido di “W SAN MARCO!”, ad affermare l’orgoglio di essere gli eredi degni di tante vittorie sotto il millenario gonfalone, al quale dedicano la nuova impresa gloriosa.
Il famoso “Affondatore” , su cui è salito a bordo l’ammiraglio Persano, è lanciato da questi contro la “Kaiser”, impossibilitata a manovrare ed in fiamme per un precedente scontro. Un bersaglio così facile è tuttavia impossibile a cogliersi per gli italiani; essi non sanno come manovrare la nuova nave. A questo punto Von Tegetthof dà il segnale di adunata e conclude lo scontro vittorioso.
Gli italiani accusano la perdita di seicentotrenta marinai annegati, oltre a otto morti e quaranta feriti in combattimento. Gli austro veneti contano solo trent’otto morti e centotrent’otto feriti.
Dopo tale splendida vittoria fu concessa da Vienna una medaglia d’oro a Vincenzo Vinello di Pellestrina, timoniere della “Ferdinand Maximillian”, che speronò il “Re d’Italia”. Altra medaglia d’oro fu concessa a Tommaso Penzo di Chioggia. Ai marinai veneziani furono concesse ben 43 medaglie d’argento, quattro ai rodigini, sei a quelli di Udine.
Per descrivere il loro valore fu coniato il detto: “Degli uomini di ferro su navi di legno hanno vinto degli uomini di legno su navi di ferro”. A memoria della vittoria, a Lissa, allora austriaca, fu eretto un monumento con un bel leone dormiente ed i nomi dei caduti austro veneti. Durante l’occupazione italiana di quelle contrade, fra le due guerre, si pensò bene di farlo sparire ed ora esso si trova, eloquente testimonianza del valore veneto, nell’accademia militare di Livorno, in pratica sequestrato alle nostre genti.
Da parte italiana, seguirono all’epoca le solite inchieste, che rivelarono oltre all’incapacità ed all’impreparazione sia di Persano che dei vice comandanti Giovanni Battista Albini e Giuseppe Vacca, il solito giro di tangenti sugli appalti della flotta. Ma questa è una storia che sfocia nell’attualità.
Antonio Vincenzi



16 aprile: festa nazionale veneta

"HIC FUIT LOCUS FALETRI DECAPITATI PRO CRIMINE PRODITIONIS"

Il 15 aprile del 1355 era la data fissata per il colpo di stato organizzato dal Doge Marino Falier, per trasformare la Repubblica Serenissima in un dominio personale.
Per decreto del Consiglio dei Dieci il 16 aprile, giorno in cui era stata sventata la congiura, divenne festa nazionale, santificata con una solenne processione a San Isidoro, da ritenersi “cerimonia molto utile per ricordare ai Dogi di non doversi mai riguardare come signori di Venezia, ma soltanto come capi della Repubblica, anzi come primi servi onorificati di essa, e sottomessi alle medesime leggi di ogni altro cittadino”. Sempre per il decreto del Consiglio dei Dieci, il luogo della parete della sala del Maggior Consiglio, dove avrebbe trovato posto la sua immagine, fu dipinto di azzurro con la seguente scritta a lettere bianche:
HIC FUIT LOCUS FALETRI DECAPITATI PRO CRIMINE PRODITIONIS.
Dopo l’incendio del Palazzo Ducale del 1577 vi fu messo un drappo nero con la scritta leggermente diversa:
HIC EST LOCUS MARINI FALETRI DECAPITATI PRO CRIMINIBUS.
Perché ricordare questo a più di 600 anni? Il tutto potrebbe sembrare esclusivamente un fatto storico non legato con il presente, invece si propone in maniera dirompente dopo queste elezioni regionali. La corretta posizione rispetto a queste elezioni era il non voto, come ha giustamente sostenuto il Veneto Serenissimo Governo, invece le forze cosiddette venetiste hanno tentato di barattare il Veneto con qualche posizione di potere; però questo non è avvenuto.
Questa del 16 aprile ’00 è una grande vittoria rispetto a chi tenta di usare il Veneto solo per i propri fini personali. L’unica via è di gettare nella pattumiera della storia i miraggi elettoralistici e impegnarsi per ridare ai Veneti il proprio libero arbitrio mettendosi al servizio del Veneto Serenissimo Governo, quale unico erede delle tradizioni di libertà della Veneta Serenissima Repubblica, lavorando per la realizzazione della sua linea politica emersa dal Terzo Congresso (il rifacimento del Referendum del 1866).

Demetrio Serraglia