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Cosa fare nel fine settimana? Leggere "Israele siamo noi" di Fiamma Nirenstein

Cosa fare nel fine settimana ?
Leggere " Israele siamo noi " di Fiamma Nirenstein, i 17,50 € meglio spesi

Cosa fare nel fine settimana ?
Leggere " Israele siamo noi " di Fiamma Nirenstein, i 17,50 € meglio spesi

Testata: Libero
Data: 10 marzo 2007
Pagina: 33
Autore: Angelo Pezzana
Titolo: «Israele Occidente, destini intrecciati»

Come passare questo fine setttimana ? Con il libro di Fiamma Nirenstein " Israele siamo noi ", i 17,50 € meglio spesi. Pubblichiamo la recensione di Angelo Pezzana, uscita oggi, 10 marzo 2007, su LIBERO, a pag.33:
Se noi occidentali siamo in piena crisi di identità, se non sappiamo capire le radici nazi-fasciste del fondamentalismo islamico, se di fronte alla minaccia globale del terrorismo non ci viene altro in mente che imbandire il tavolo della pace, rivolgiamo un pensiero grato a Fiamma Nirenstein, che con il suo libro appena uscito “ Israele siamo noi “ (Rizzoli ed. 17,50 euro) ci insegna come tirarci fuori dalle sabbie mobili dentro le quali, totalemte inconsci, stiamo affondando. Da Israele, il paese nel quale vive ormai da molti anni, lancia al mondo occidentale segnali inequivocabili. Ci dice di aprire gli occhi prima che sia troppo tardi, ci chiede di capire che quanto sta accadendo agli ebrei in Israele sarà destino comune in Europa se non avremo il coraggio di dare una svolta alla politica suicida che ha segnato troppo a lungo la storia di questo dopoguerra. In mezzo a tutti gli “ ismi “ criminali che hanno marchiato a sangue il secolo passato, solo uno ha lasciato una eredità di valori democratici, il sionismo, il movimento risorgimentale che ha portato alla rinascita dello Stato ebraico. Che però ci viene presentato dalla disinformazione dilagante come un insieme di errori e di illegittimità, con lo scopo dichiarato, persino spudoratamente, di arrivare alla cancellazione di Israele dalle carte geografiche. Un’Europa addormentata, che invece di combattere il terrorismo, che ne vuole  distruggere storia e civiltà, gli liscia il pelo, convinta di essere poi risparmiata,  in preda ad uno pseudo pacifismo che le impedisce di vedere e reagire. E’ un libro, quello di Fiamma Niresntein,  che non concede nulla all’ipocrisa dilagante. La racconta giusta alle sinistre, ricordandone il percorso,  ha parole di fuoco anche per quegli ebrei che, attratti come falene dal lampione dell’antisemitismo, si sentono colpevoli se non  attaccano Israele, nella convinzione di essere così accettati. Dopo aver letto d’un fiato “ Israele siamo noi “ , abbiamo posto all’autrice alcune domande.

D. Alla vigilia della 2° guerra mondiale erano in pochi a vedere con chiarezza la tempesta che stava per scatenarsi sull’Europa. Umberto Terracini fu uno tra quei pochi. Prigioniero nelle carceri fasciste, fu espulso dal suo partito, il PCI,per essersi pronunciato contro il patto russo-tedesco, che, in teoria, avrebbe dovuto garantire la pace. Non vedi una continuità con la politica della sinistra, sia comunista che post, nei confronti del terrorismo ?

R. Fino ad oggi la sinistra ha considerato il terrorismo un fenomeno minore, l’ha messo in ridicolo, invece di considerarlo il segnale di una grande guerra distruttiva e di conquista. In questa diminuzione del ruolo del terrorismo c’è la stessa speranza di appeasement che si rivelò fallimentare allora.

D. L’opzione “ terra in cambio di pace “ ha fallito. Cosa deve fare Israele per separarsi dai palestinesi ?

R. Deve cercare di suscitare nel mondo la consapevolezza che finchè c’è l’Iran in campo, finchè Hamas è sostenuta con denaro, armi e tanta violenza ideologica, non c’è via d’uscita, i palestinesi non riconosceranno mai Israele.

D. Come giudichi il basso profilo che contraddistingue il comportamento di una parte degli ebrei della Diaspora ?

R. Piuttosto incosciente, come se non fossero a loro volta delle foglie che possono essere spazzate via dalla tempesta in arrivo.

D. Dove guardare per vedere segnali di speranza ?

R. Agli Stati Uniti d’America, dove l’opinione pubblica sembra comprendere le ragioni di Israele, perchè sono anche le sue. Israele è l’avamposto di tutte le democrazie ed è ora che l’Europa se ne renda conto.

Ha ragione Fiamma Nirenstein, noi europei siamo cresciuti nella bambagia della pace,  per questo non siamo più in grado di capire perchè una democrazia ha il dovere di difendersi , anche con una guerra, da chi vuole distruggerti. Lo Stato ebraico è in prima linea, ma subito dopo verremo noi, anche se facciamo finta di non saperlo. Israele siamo noi, ci dice,   noi europei che in questi anni abbiamo costruito i nostri paesi sulla pace e sul progresso economico, difendendo diritti umani e civili. Proprio come ha fatto Israele.




Perché Napolitano non ha ragione

Bruciano come benzina le dichiarazioni del presidente italiano Giorgio Napolitano e le repliche di quello croato Stipe Mesić e rischiano di destabilizzare politicamente l’alto Adriatico.

Un commento di Franco Juri

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/6795/1/50/
Autore: Franco Juri
Bruciano come benzina le dichiarazioni del presidente italiano Giorgio Napolitano e le repliche di quello croato Stipe Mesić e rischiano di destabilizzare politicamente l’alto Adriatico. Un commento del nostro corrispondente Franco Juri
Bruciano come la benzina le dichiarazioni del presidente italiano Giorgio Napolitano e le repliche di quello croato Stipe Mesić e rischiano di destabilizzare politicamente l’alto Adriatico. Sono accuse e repliche ineluttabili e giustificate? E che cosa in realtà le motiva? Calcoli politici, crisi interne nei due paesi con tanto bisogno di nemico esterno? Sensi di colpa e svolte storiche?

A farne le spese saranno nuovamente tutti coloro che da anni si adoperano per sciogliere il nodo scorsoio dei contenziosi storici, più o meno motivati e corroborati dai fatti, lungo il confine orientale d’Italia e quello occidentale dell’ex Jugoslavia, della Slovenia e della Croazia.

A farne le spese è purtroppo anche questa volta la verità storica, svilita proprio dai tanti inni retorici alla "verità" e alla "memoria".Personalmente sono dell’avviso che nè i toni e le parole scelte da Napolitano, nè quelli di Mesić siano particolarmente degni di due presidenti democratici ed europei.

Certo, il presidente croato è sanguigno e da presidente si è permesso una serie di valutazioni (prima sulle foibe e ora in dura polemica con l’omologo italiano) poco consone ad un capo di stato, ma che allo stesso tempo, intese storicamente, potrebbero avere più di qualche ragione.

La retorica della memoria scelta da Napolitano nel suo discorso a Roma si è invece articolata seguendo degli stereotipi con evidenti sfumature antislave tipici ed esclusivi fino a qualche anno fa dell’estrema destra nazionalista, soprattutto di quella lungo il confine orientale. Una retorica e degli stereotipi di cui si poteva prevedere l’effetto e che invece vede tutto l’arco costituzionale fare quadrato bipartisan attorno al presidente. Siamo all’omologazione nazionale e patriottarda di risorgimentale memoria?

Ma andiamo per ordine. Napolitano aveva parlato, riferendosi alle vittime delle foibe, di "un moto di odio, di furia sanguinaria" e di "barbarie" e di un "disegno annessionistico slavo che prevalse nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica". Queste parole hanno suscitato la reazione del presidente croato che ha colto in esse elementi di "razzismo e revanscismo". Mesić sbaglia? La tesi di un "espansionismo slavo" tende effettivamente ad etnicizzare, tra l’altro con la tipica smania di omologare il mondo slavo ad un concetto prenazionale, quindi involuto rispetto alla propria civiltà nazionale, un fenomeno storico ben più complesso.

Quella sull’ "odio e la furia sanguinaria" attribuita a questo "espansionismo slavo" tende ad attribuire a tale fenomeno un alone di barbarie che avalla la percezione di un moto meno civile che arriva dall’ est. Purtroppo tutt’oggi il grosso della stampa e della televisione italiane continuano a riprodurre lo stereotipo fondamentalmente etnicista di un mondo slavo di non meglio identificabili connotazioni nazionali. Basti leggere la cronaca nera; i malavitosi extracomunitari sono di sovente "slavi". In questa categoria etnica e dai connotati un pò razzisti vengono inclusi un pò tutti quanti provengono dal Balcani occidentali ovvero dall’ ex Jugoslavia; serbi, bosniaci, croati, macedoni, rom, persino kosovari di etnia albanese.Con il termine veneto di slavi, cioé "s’ciavi", vengono invece indicati con disprezzo dai nazionalisti italiani, soprattutto nei circoli dell’estrema destra, anche gli sloveni del Friuli Venezia Giulia.

Ma Napolitano fa uso anche del lemma "milizie titine", riferendosi all’esercito jugoslavo e partigiano del maresciallo Tito. Anche qui tradisce una certa insofferenza che è paradossalmente ideologica, visto che il presidente italiano fu in quegli anni di piombo fedele compagno di partito di Palmiro Togliatti. Inoltre Napolitano allude piuttosto chiaramente ad una presunta illegittimità del Trattato di pace del 1947, con cui si pose fine agli strascichi della seconda guerra mondiale, castigando, tutto sommato moderatamente, l’Italia cui rimasero sia Trieste che Gorizia, per il suo imperialismo e razzismo fascista e la sua alleanza, fino al 1943, con la Germania di Hitler.

Pensare che tali affermazioni, fatte da un presidente europeo, non provocassero la reazione dei diretti interessati, era un’ingenuità. Mesić non e’ stato "politicamente corretto" e ha scelto di dire senza tatto diplomatico quanto pensano in molti oltre confine. Ma l’elemento di maggior ipocrisia in questa vicenda è il richiamo ossessivo alla "memoria" e alla "verità storica" nei discorsi ufficiali di coloro che invece ignorano sistematicamente quanto l’indagine storica documentata ha prodotto fin’ ora anche sul tema delle foibe e dell’esodo.

Ricordiamo che nel 1993, su iniziativa delle diplomazie italiana e slovena (Andreatta-Peterle) venne costituita una commissione storico-culturale mista, composta da eminenti nomi di provata competenza e autonomia accademica, di entrambi i paesi. La commissione lavorò per 7 anni, con alcune interruzioni durante il primo governo Berlusconi e nel 2001 elaborò, non senza lunghi dibattiti che percorsero la traccia di una ricerca documentata, una relazione storica in cui, sinteticamente ma in termini molto qualificati, venivano descritti e spiegati i fatti ed i fenomeni salienti nei rapporti tra italiani e sloveni dalla fine dell’ Ottocento al 1954, anno del Memorandum di Londra e della conclusione, grosso modo, dell’esodo istriano-dalmata.

La relazione di una quarantina di pagine toccava tutti di fatti dolorosi a cavallo del confine, compresi il ventennio fascista, la "bonifica etnica" mussoliniana a danno di sloveni e croati, la guerra con i suoi massacri, i campi di concentramento nazifascisti, la repressione comunista, le foibe e l’esodo. Il tutto, com’è giusto e ovvio in un’analisi storica, contestualizzato, senza estrapolazioni strumentali.

Ma quella relazione, pubblicata ufficialmente solo a Lubiana, venne ignorata o persino censurata dalla Farnesina. Solo Il Piccolo di Trieste la pubblicò in anticipo, bruciandone un pò la valenza politica. Il governo italiano non ne volle sapere invece nulla. Perché? Perché nel centrosinistra italiano era già avviata la metamorfosi politica dell’ex PCI, ovvero dei Democratici di sinistra che, ispirati prima dal triestino Stelio Spadaro, poi da Luciano Violante e da Piero Fassino, vedevano nel revisionismo storico uno strumento efficace non solo di "espiazione" e "purificazione", ma anche e soprattutto di allontanamento simbolico dai postulati comunisti, che la destra continuava a attribuirgli.

In questo dilagare del revisionismo e anche di un certo negazionismo delle responsabilità dell’Italia fascista nelle tragedie lungo il confine orientale, c’è stata una corsa alla "memoria" in cui una certa sinistra ha tentato di scavalcare pure l’estrema de
stra, assumendone i toni e le interpretazioni, spesso e volentieri improntate ad un disprezzo per il mondo slavo ed il suo "odio sanguinario". E così, nonostante l’indagine storica non confermi la tesi del genocidio e delle pulizia etnica "titina", ma documenta una violenza reattiva e una repressione politica di cui fecero le spese, oltre a nazisti e collaborazionisti, anche civili innocenti e oppositori politici di diversa etnia, si avalla il mito dei 20 mila infoibati "solo perché italiani". La relazione storica parla di "alcune centinaia di infoibati", mentre le ricerche della storica Nevenka Troha, indubbiamente una dei più onesti e coraggiosi esperti di massacri del dopoguerra, portano la cifra approssimativa dele vittime delle foibe ad un massimo di 1600. E poi si continua a parlare di 350 mila esuli istriani e dalmati, ignorando che la ricerca storica documenta circa 204 mila persone che lasciarono con l’esodo i territori ex italiani.

Roma continua a ignorare lo sforzo degli storici di offrire un quadro il più possibilmente obiettivo di quanto avvenne attorno al confine orientale durante e dopo la seconda guerra mondiale. Il mito avallato e istituzionalizzato con particolare enfasi retorica e calcolo politico viene assurto ora a religione di stato. La proposta, fatta a più riprese da alcuni storici e politici, di aprire la tristemente famosa foiba di Basovizza per verificare cosa e quanto contenga in verità, anche per dare un’identità e degna sepoltura ai resti umani lì rinchiusi, è stata sempre energicamente censurata dai sostenitori delle tesi di un genocidio antiitaliano. Strano, la pietas viene in verità sepolta dai timori di veder apparire una realtà diversa? Chi ha in verità timore della verità storica? Chi perpetua in verità la "congiura del silenzio"?




No della Chiesa ortodossa al piano Onu sul Kosovo

da Belgrado

Anche la Chiesa ortodossa, tradizionale bastione dell’orgoglio nazionale, ha unito ieri la sua voce alla raffica di no pronunciati venerdì dalla Serbia alle proposte sulla provincia secessionista a maggioranza albanese del Kosovo avanzate dal mediatore dell’Onu, Martti Ahtisaari.

Il piano di Ahtisaari conduce dritto verso il riconoscimento dell’indipendenza della provincia contesa, rimasta sotto tutela internazionale per oltre sette anni dopo i bombardamenti Nato del 1999 e l’allontanamento delle forze di repressione dell’allora regime belgradese di Slobodan Milosevic. Certo si tratterà di una realtà a sovranità limitata, ma lo scenario è quello di un nuovo staterello autonomo.
Una prospettiva che suscita l’indignazione della Chiesa ortodossa serba, che proprio in Kosovo ha le sue radici secolari, simboleggiate in forma di capolavori dai monasteri medievali sparsi nella provincia. Una terra popolata ormai per oltre il 90% da albanesi decisi alla secessione, ma che la Serbia considera da sempre culla della sua fede e civiltà.
Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, reduce da una visita negli Usa, dove ha incontrato il presidente Bush e il segretario di Stato Rice, ha sottolineato come la visione della Russia sulla questione sia agli antipodi di quella americana. Mosca ritiene «inammissibile una imposizione dall’esterno a qualunque delle parti in causa».




D'Alema si allontana da Roma e teme di perdere la poltrona

….«Temo che il precipitare degli eventi produca solo destabilizzazione», ha detto il presidente dei Ds. Che, memore delle lezioni ricevute alle Frattocchie ai tempi del Pci, ha aggiunto: «Nessuno fa guerre preventive contro Veltroni, sia chiaro, ma se oggi si raffreddano gli animi è meglio per tutti»….


di Francesco Damato – giovedì 01 febbraio 2007, “Il Giornale” www.ilgiornale.it
La situazione dev’essere ben seria se Massimo D’Alema prima di assentarsi da Roma per una settimana, quasi sulla scaletta dell’aereo che lo portava in Giappone, ha sentito il bisogno di lanciare ai suoi alleati il «sommesso appello» a fargli trovare ancora al ritorno il governo del quale è vicepresidente e ministro degli Esteri. Sulla sua durata invece egli aveva sino a qualche giorno prima scommesso coprendo di beffarde battute chi dall’opposizione ne prevedeva o solo desiderava la fine ben prima della scadenza ordinaria della legislatura. Neppure l’accidentato percorso della legge finanziaria aveva fatto vacillare nei mesi scorsi la fiducia di D’Alema nella capacità di tenuta della coalizione ministeriale, per quanto avesse pure lui alzato ad un certo punto la voce contro i pasticci dei suoi colleghi di governo incaricati di calcolare entrate, spese, tagli e quant’altro.
«Evitiamo di sfasciare tutto», ha invece supplicato adesso il presidente dei Ds lamentando il «logoramento» procurato al governo da uno «stillicidio di polemiche» davanti alle quali egli ha avvertito il rischio che gli elettori dei partiti della maggioranza non possano o, peggio, non vogliano distinguere fra chi può avere torto o ragione, preferendo bocciare in blocco la coalizione. Che d’altronde ha vinto le ultime elezioni per il rotto della cuffia e vive attaccata all’ossigeno residuo dei vecchi senatori a vita.

Una lettura affrettata della lunga intervista alla Repubblica con la quale D’Alema ha improvvisamente lanciato il suo allarme sulla situazione del governo e della maggioranza potrebbe attribuirne la causa un po’ alla sinistra antagonista e un po’ al ministro della Giustizia Clemente Mastella per il fuoco che hanno acceso sotto le pentole, rispettivamente, della missione militare italiana in Afghanistan e delle coppie di fatto. Ma credo che non siano questi i veri fuochi all’origine delle improvvise preoccupazioni di D’Alema, troppo scaltro e consumato per non sapere che spesso in politica le polemiche quanto più sono rumorose tanto più sono recuperabili. Ho il sospetto che sia più il sommerso che l’emerso ad allarmare l’astuto ministro degli Esteri. Il sommerso è rintracciabile nella coda della sua intervista e si chiama Walter Veltroni, con il quale D’Alema ha una complicata partita aperta da anni, esattamente da quando gli soffiò la segreteria del partito sul filo del traguardo dopo l’eliminazione di Achille Occhetto.
Con l’aria di volerlo aiutare a scansare pericoli, o di volerlo proteggere da consiglieri sprovveduti o, peggio, da tessitori di torbide trame politiche, D’Alema ha praticamente invitato l’ancor giovane, ambizioso e scaltro sindaco di Roma a rientrare nei ranghi. Dai quali invece Veltroni è sospettato di essere uscito proponendosi o lasciandosi proporre per un dopo-Prodi che D’Alema mostra di avvertire ben prima di quanto voglia far credere. «Temo che il precipitare degli eventi produca solo destabilizzazione», ha detto il presidente dei Ds. Che, memore delle lezioni ricevute alle Frattocchie ai tempi del Pci, ha aggiunto: «Nessuno fa guerre preventive contro Veltroni, sia chiaro, ma se oggi si raffreddano gli animi è meglio per tutti». Di sicuro per lo stesso D’Alema, che sa di non poter replicare l’avventura del 1998, quando Francesco Cossiga arruolando dei disperati nel centrodestra lo aiutò a succedere a Prodi a Palazzo Chigi. L’operazione, del resto, non gli portò fortuna perché gli fece perdere le elezioni regionali del 2000 e spianò la strada alla vittoria di Silvio Berlusconi nel 2001.




IN ANTEPRIMA IL LIBRO "LA STORIA DEL SERENISSIMO GOVERNO"

«In piazza San Marco per liberare il Veneto»
Un’avventura iniziata 20 anni fa, tra ideali di autonomia e arditi progetti per trasformarli in realtà

costo del libro 5€ (più spese postali), ordini a pepiva@libero.it

 
 articolo pubblicato sul quotidiano "La Padania" l’11 gennaio 2007
paolo parenti


La mattina del 9 maggio 1997, il Tanko Marcantonio Bragadin 007 apparve “padrone”, anche solo per qualche ora, di Piazza San Marco a Venezia.
In tutto il mondo si sparse la notizia del “commando” veneto sbarcato nel cuoredella Laguna con un mezzo blindato per issare la bandiera del Leone sul Campanile. A dir poco impaurito, lo stato italiano fece intervenire addirittura i gruppi di intervento speciale dei carabinieri che in breve arrestarono tutti gli otto componenti del gruppo. Con quell’azione il Veneto Serenissimo Governo si conquistò un posto nella storia. Quegli uomini trovarono un posto nelle galere italiane ma insieme contribuirono a rinnovare l’orgoglio di un intero popolo. Qualcuno può continuare a pensare che sia un gruppo di pazzi scatenati, altri li ammirano come Patrioti. Di certo prima di dare l’assalto a Piazza San Marco si prepararono per anni, dando vita al “Veneto Serenissimo Governo” già il 25 gennaio 1987.
A vent’anni di distanza da quella data gli attuali componenti del Veneto Serenissimo Governo (ora guidato da Luigi Faccia e composto da Luca Peroni, Andrea Viviani, Valerio e Demetrio Serraglia e Andrea Paro) hanno voluto ricordare la storia del gruppo con un libro, del quale in questa pagina pubblichiamo in anteprima assoluta ampi brani.
«…Diverse persone si avvicinarono al Veneto Serenissimo Governo, alcuni venivano solamente perché attratti dalle informazioni storicoculturali, altri invece nutrirono vero interesse per le finalità politiche e col tempo maturarono sufficiente esperienza per collaborare con il Governo. Agli inizi del 1992 si avvicinò Fausto Faccia, il suo arrivo diede una spinta notevole alla propaganda e ai lavori sui Tanki (inizial,mente i blindati erano due) in collaborazione con Barison.
Dopo qualche mese, sempre nel 1992, iniziarono a collaborare con il Veneto Serenissimo Governo Luca Peroni e Andrea Viviani, il primo cominciò subito a darsi da fare in tutti i campi mentre il secondo, dopo aver partecipato a qualche riunione, si allontanò per poi collaborare definitivamente nell’autunno dell’anno successivo. In quegli anni la propaganda consisteva nel volantinaggio, scritte sui muri e affissione di adesivi del Leone Marciano, oltre alle varie riunioni di carattere storico culturale che si tenevano frequentemente, tuttavia si sentiva il bisogno di sfondare sull’opinione pubblica con altri mezzi.
Si decise di prendere una trasmettitore radio in FM, per poter divulgare i documenti del Veneto Serenissimo Governo e visto che non si poteva usare in un luogo fisso, per non essere intercettati dalle forze dell’ordine, venne acquisita un Land Rover su cui montare tutto l’apparato e trasmettere da varie parti del Veneto, limitando i pericoli di venir scoperti. Dopo innumerevoli tentativi ci si rese conto che la potenza della radio era troppo debole mentre le frequenze delle radio commerciali troppo forti, così si decise di prendere un altro trasmettitore ma questa volta doveva trasmettere in AM visto che questa banda è meno usata e quindi più accessibile ai mezzi di cui disponevamo.
Il problema più importante era alzare l’antenna in modo tale da avere un segnale di adeguata potenza: si utilizzarono dei palloni gonfiabili con elio ma la cosa risultò difficoltosa, così prendemmo un traliccio telescopico che riusciva ad arrivare a qualche decina di metri. La Land Rover risultò troppo piccola, così prendemmo un camper 4×4 e, dopo averlo adattato ai nostri scopi, cominciammo le prove che continuarono fino al 1996.
In quegli anni provammo a costruire delle mongolfiere che, una volta sopra un centro abitato, con un meccanismo a tempo, lasciassero cadere qualche migliaia di volantini, oppure si era pensato di acquistare un piccolo elicottero e imitare quello che fece Gabriele D’Annunzio su Vienna durante il primo conflitto mondiale; la prima soluzione risultò difficoltosa e non sicura, mentre la seconda troppo costosa.
Intanto altre persone si affacciarono al Veneto Serenissimo Governo, nel 1995 si contattò Giuseppe Segato.
I lavori sui Tanki erano ormai al termine e per una ragione di sicurezza si decise di trasferire il materiale dalla casa di Flavio Contin a quella di Domenico Brunato, un conoscente del Presidente Luigi Faccia, che aveva simpatie verso la nostra causa.
Nel settembre del 1996 la Lega Nord decise di dichiarare l’indipendenza della Padania a Venezia, il Veneto Serenissimo Governo non poteva farsi anticipare senza fare niente e così il 24 Agosto 1996 a Casale di Scodosia ci fu il “Secondo Congresso”; erano presenti: il Presidente Luigi Faccia, il Vicepresidente Flavio Contin, l’Ambasciatore Giuseppe Segato, il Cancelliere Antonio Herthy Barison, i consiglieri Gilberto Buson, Fausto Faccia, Luca Peroni, Andrea Viviani, oltre ad altri Patrioti (tra cui Lorena Corvi, Cristian Contin e Severino Contin).
Questa data segna un punto di svolta nella politica del Veneto Serenissimo Governo perché si decise di uscire allo scoperto, considerato che l’anno successivo ricorreva il duecentesimo anniversario dalla caduta della Veneta Serenissima Repubblica.
In questo congresso fu solennemente firmata la Dichiarazione d’Indipendenza, si decise di divulgarla con le interferenze Radio, e il compito fu assegnato a Fausto Faccia e ad Herthy Barison con la collaborazione di Luca Peroni e Andrea Viviani, inoltre si iniziò a programmare l’azione chiave con cui si doveva avviare un processo di liberazione del Veneto (azione di Piazza San Marco)…

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«I preparativi, il viaggio e lo sbarco di noi patrioti La sconfitta momentanea diventò una vittoria mediatica»
 
Ecco, dal libro “La Storia del Veneto Serenissimo Governo”, il capitolo dedicato alla liberazione di piazza San Marco.
«Il 16 settembre iniziarono le interferenze radio e continuarono per qualche mese, si usciva la sera con il camper e un paio di macchine di scorta. Grazie a sopralluoghi fatti precedentemente, si andava nel posto prestabilito, in luoghi non frequentati in mezzo alla campagna, e mentre una macchina stava di guardia per avvisare dell’arrivo di eventuali forze dell’ordine o altri, si cominciava a trasmettere: prima un discorso di presentazione e poi la Dichiarazione d’Indipendenza, il tutto durava circa un’ora.
Purtroppo trasmettendo in AM, nonostante la potenza della radio, essendo queste frequenze poco ascoltate, non abbiamo ottenuto molto successo. Peraltro è grazie a queste interferenze che abbiamo conosciuto alcuni amici, i quali ci confidarono che c’era la possibilità di sovrapporsi alla frequenza di Rai Uno tramite un apparecchio facilmente reperibile e semplice da usare. Era la soluzione che aspettavamo, dopo qualche discussione all’interno del Veneto Serenissimo Governo a fine anno venimmo in possesso dell’apparecchio. Dopo qualche mese per capire come funzionasse e per fare alcune prove, il 17 marzo 1997 alle otto di sera all&
rsquo;inizio del “TG 1” ci fu la prima interferenza a Venezia: il fatto ebbe un successo incredibile, giornali e telegiornali riportarono la notizia con un’enfasi imprevista facendo inoltre pubblicità alla nostra causa.
Dopo anni di innumerevoli prove con le radio e nessun risultato, finalmente un grande successo: eravamo riusciti a far scoppiare in tutta Italia, ma non solo, il “caso Veneto”, inoltre in maniera così semplice: bastava una macchina in un posto sufficientemente elevato, a Venezia siamo stati sul tetto di un parcheggio, mettersi con le spalle al ripetitore del Monte Venda a Padova e puntare sul centro abitato. Dopo Venezia è stata la volta di Treviso e Verona, poi una decina di grandi centri abitati, per arrivare alla fine a piazzare un apparecchio fisso a Belluno ed uno a Verona con un meccanismo a tempo in maniera che si accendesse automaticamente alle otto di sera, e limitare così il pericolo di venir intercettati da tutte le forze dell’ordine del Veneto che ci cercavano con affanno.
Intanto il 12 maggio si avvicinava, per l’anniversario della caduta della Veneta Serenissima Repubblica dovevamo essere pronti all’azione che avrebbe iniziato il processo di liberazione del Territorio Veneto. Tutto era stato pianificato: l’obbiettivo era il campanile di Piazza San Marco a Venezia. Le fasi dell’operazione erano le seguenti: imbarcare sul traghetto che va dal Tronchetto al Lido il camper e il Tanko, quest’ultimo caricato su un rimorchio, e trainato da una poderosa motrice; invitare il capitano a sbarcarci sulla piazza; liberare il campanile adiacente il Palazzo Ducale e difendere la Piazza fino all’arrivo dell’Ambasciatore e successivamente del Presidente. Le gerarchie in quell’operazione erano chiarissime: Gilberto Buson comandava l’operazione per tutto il viaggio fino a Venezia; a Fausto Faccia toccava la responsabilità dell’imbarco e dello sbarco; Flavio Contin aveva il comando delle operazioni all’interno del campanile una volta liberata la Piazza; Luca Peroni aveva il comando della Piazza ed il controllo del Tanko.
Intanto a causa delle interferenze radio alcuni del Veneto Serenissimo Governo erano stati scoperti dalla polizia: Fausto Faccia aveva subito più di una perquisizione e vari interrogatori e altri si erano accorti di essere seguiti, quindi per evitare di venire bloccati dovevamo sparire contemporaneamente dalla circolazione, ritrovarci al punto di ritrovo e anticipare di qualche giorno l’operazione.
Fu deciso di partire la sera di giovedì 8 maggio verso le ore 20, tutto il viaggio andò liscio e senza contrattempi, l’imbarco e lo sbarco pure, la Piazza era semi deserta e in poco più di mezz’ora avevamo scaricato il materiale dal camper e il Tanko sorvegliava i pochi carabinieri che ci avevano seguito dal momento della navigazione sul Canal Grande. Era circa l’una di notte, la parte più rischiosa era stata fatta ora dovevamo difendere la piazza e aspettare l’arrivo della autorità militari italiane e del nostro Ambasciatore.
Durante la notte tutti hanno svolto i loro compiti col massimo impegno: Luca Peroni e Christian Contin erano all’interno del Tanko e avevano il loro da fare nel contenere le prime autorità di polizia che erano arrivate nella Piazza, Herthy Barison e Gilberto Buson lavoravano per preparare l’occorrente e trasmettere i nostri comunicati con l’apparecchio per le interferenze, Andrea Viviani e Moreno Menini dovevano sistemare tutto il materiale che avevamo portato mentre Fausto Faccia e Flavio Contin seguivano lo svolgersi della situazione pronti ad ogni evenienza; verso mattina Fausto Faccia dovette intrattenere diversi colloqui, mantenendosi al coperto dietro il camper, con il sindaco Massimo Cacciari, visto anche la mancanza dell’ambasciatore che, nonostante fosse stato anche chiamato parecchie volte, non si fece trovare. Verso le otto del mattino le autorità italiane non potevano aspettare che la notizia della liberazione della Piazza facesse il giro del Veneto e del mondo, rischiando che ci fosse una mobilitazione a favore del Veneto Serenissimo Governo, così il ministro degli Interni del Governo italiano Giorgio Napolitano decise di mandare i G.I.S. dei carabinieri per rioccupare Piazza San Marco. Circa alle otto e trenta del mattino tutti i partecipanti all’azione vennero catturati.
Il Presidente venne arrestato sabato 10 maggio e dopo tre giorni di carcere, dietro l’assicurazione del procuratore di Verona che i Patrioti avrebbero ricevuto un trattamento dignitoso, visto l’impossibilità di continuare l’impari lotta, decise di iniziare le trattative per spiegare, non tanto alla Procura ma al Popolo Veneto, i nostri scopi, gli ideali, le finalità e la nostra volontà di non fare del male a nessuno. Così trasformando un momentaneo insuccesso in una vittoria mediatica.
Il processo che si svolse in due mesi finì con le seguenti condanne. Flavio Contin, Fausto Faccia, Gilberto Buson e Antonio Herthy Barison vennero condannati a 6 anni, a Luca Peroni, Andrea Viviani, Christian Contin e Moreno Menini furono inflitti 4 anni e nove mesi con la concessione degli arresti domiciliari, un risarcimento alle parti civili di venti milioni di lire e la richiesta del Comune di Venezia di duecento milioni di lire come risarcimento danni. Il Presidente Luigi Faccia e l’Ambasciatore Giuseppe Segato presero entrambi sei anni e quattro mesi.




L'ALPINO – Editoriale: RADICI

Martedì, 31 Ottobre 2006 –

No, non è rinunciando alla nostra identità – fenomeno che colpisce solo le culture deboli – che dobbiamo affrontare la multiculturalità, ma con la difesa di ciò che siamo, nello spirito di ciò che siamo sempre stati e vogliamo essere.

Martedì, 31 Ottobre 2006 –
 
In un precedente editoriale avevamo stigmatizzato la mancanza del riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa nella bozza della Costituzione della Comunità Europea. Le ragioni di questa esclusione sono molteplici: si voleva difendere una laicità ereditata dall’illuminismo, si preferiva non costruire presupposti per allontanare dalla Comunità i Paesi del Mediterraneo di storia e cultura diverse dalla nostra.

Questo oscuramento delle nostre radici rischia tuttavia di allontanare gli europei dall’Europa: di fronte alle grandi migrazioni dal continente africano e asiatico scopriamo che una distorta concezione dell’accoglienza rivela il lato debole d’una cultura, la nostra, che è andata progressivamente perdendo valori fondanti e, dunque, identità.

Tutelare la nostra identità non significa rifiuto dell’accoglienza, ma adeguare i diversi modelli di vita degli ospiti al nostro modello di vita, perseguendo una integrazione non certo semplice né breve, che consenta all’Europa, e all’Italia, di restare quelle che sono.

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Si dirà: cosa c’entra tutto questo con il nostro essere alpini? Ma gli alpini non sono forse una forza viva, ricca di tradizioni e valori, punto di riferimento nella società ma, più specificatamente, in mille e mille paesi in cui c’è un gruppo associativo? Gli alpini sono a buon diritto cittadini del loro tempo, perché hanno un grande passato, sono figli di un’eredità costruita attraverso guerre, terremoti, devastazioni e ricostruzione; fatta di senso del dovere, fedeltà alle istituzioni e solidarietà. Solidarietà che significa anche – vorremmo dire soprattutto – di comportamento: nelle missioni di pace dei nostri reparti all’estero, nell’ambito associativo, sul lavoro, in famiglia.

Ecco perché è nata una discussione che ha coinvolto un po’ tutti i nostri iscritti quando è stata censurata la Preghiera dell’Alpino. Diciamolo: quel taglio “ufficiale” della frase che si riferisce alla difesa della “nostra civiltà cristiana” non ci è andato giù e – per la prima volta nella nostra storia non allineati con l’Ordinariato – abbiamo deciso di pregare, durante le nostre cerimonie, come i nostri Padri e come ci piace.

Del resto, nulla è più personale della preghiera. Ma quel “taglio”, più che il segno d’una diversa sensibilità dell’accoglienza, viene sentito come una discontinuità dell’essere alpini, del loro senso di carità e di pietà nel significato etimologico e umano più profondo. Rimossa dalla nuova versione della preghiera anche l’espressione “rendi forti le nostre armi”, armi che vanno intese – in senso ampio – a difesa di ciò che siamo, senza odio o desiderio di sopraffazione.

Vorremmo ricordare, a questo proposito, le parole del colonnello Mario Giacobbi, comandante del 2° reggimento Alpini al rientro dalla missione in cui sono caduti sei suoi alpini, uno in un incidente di pattuglia e cinque uccisi in due attentati: “Un pensiero all’Afghanistan. A questa nazione così lontana e cosi diversa dalla nostra cultura, così sfortunata ma dal popolo fiero che merita un futuro migliore. Nutriamo la speranza che col contributo nostro e dei futuri contingenti il suo desiderio di pace e stabilizzazione si compia e che finalmente abbiano il sopravvento il dialogo e la concordia”.

Una risposta di rispetto e civiltà. Un grande esempio di spirito alpino che fa la profonda differenza fra il militarista e chi si impegna, anche a rischio della propria vita, per contrastare la violenza che purtroppo dilaga in tante aree del mondo.

No, non è rinunciando alla nostra identità – fenomeno che colpisce solo le culture deboli – che dobbiamo affrontare la multiculturalità, ma con la difesa di ciò che siamo, nello spirito di ciò che siamo sempre stati e vogliamo essere.




I militari turchi: alt all'integralismo islamico

da "Il Giornale" del 3 ottobre 2006

di Marta Ottaviani
"Si può negare che in Turchia la laicità sia sotto un forte attacco? Si può negare che ci siano coloro che vogliono ridefinire il secolarismo? Si può negare che questi ultimi occupino le più alte cariche pubbliche? Se non potete rispondere sinceramente no a queste domande significa che in Turchia esiste la minaccia della irtica (termine utilizzato per indicare le forze reazionarie fondamentalista, ndr) e che bisogna prendere urgentemente qualsiasi tipo di provvedimenti per fermare il fondamentalismo islamico".

I problemi andavano avanti da mesi. Ma ormai, in Turchia, è scontro aperto fra il governo di Ankara e la parte più laica del Paese, ossia l’establishment militare e il Presidente della Repubblica. Una situazione delicata, esplosa per la prima volta settimana scorsa, quando il generale Ilker Basbug, comandante delle forze di terra turche, aveva detto che il Paese è in serio pericolo, perché l’influenza degli ordini religiosi all’interno della vita politica sta crescendo in maniera esponenziale. Basbug aveva anche aggiunto che le riforme adottate da Atatürk rischiano di esser completamente dimenticate. E ieri il generale Yasar Buyukanit, Capo di Stato maggiore delle forze armate turche, ha rincarato la dose. L’alto ufficiale, nel suo discorso all’Accademia di Guerra a Istanbul, ha detto: "Si può negare che in Turchia la laicità sia sotto un forte attacco? Si può negare che ci siano coloro che vogliono ridefinire il secolarismo? Si può negare che questi ultimi occupino le più alte cariche pubbliche? Se non potete rispondere sinceramente no a queste domande significa che in Turchia esiste la minaccia della irtica (termine utilizzato per indicare le forze reazionarie fondamentalista, ndr) e che bisogna prendere urgentemente qualsiasi tipo di provvedimenti per fermare il fondamentalismo islamico". Le dichiarazioni del numero uno dei militari turchi sono un attacco frontale al governo di Recep Tayyip Erdogan ma avrebbero come destinatario anche l’Unione Europea. Con il suo discorso, infatti, Byukanit intende riaffermare il ruolo dei militari in Turchia come difensori della laicità e della democrazia dalla minaccia fondamentalista islamica contro le richieste europee di mettere fine a ogni ruolo politico dei militari. Fino a questo momento le alte cariche delle forze armate si erano limitate a svolgere un’attività di controllo sull’operato del governo guidato da Erdogan e dal suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di orientamento islamico-moderato.
Chi da mesi non tace e non perde occasione per richiamare il governo ai principi di Atatürk, che nel 1923 fondò la Turchia moderna, è il presidente della Repubblica Necdet Ahmet Sezer, eletto nel 2001. Ex presidente della Corte Costituzionale, convinto sostenitore dell’ingresso del Paese nell’Ue, il suo rapporto con il premier Erdogan è stato segnato da quattro anni di scontri e litigi. Due giorni fa, in occasione dell’ultimo discorso per l’inaugurazione dell’anno parlamentare, Sezer ha parlato apertamente di ritorno della minaccia fondamentalista. "Il pericolo di una reazione islamica – ha detto – è la più grave minaccia per la nostra sicurezza interna. Quelli che non lo capiscono dovrebbero analizzare come la vita dello Stato è cambiata negli ultimi 20 anni. È quanto mai evidente che anche oggi, il fondamentalismo non ha cambiato il suo obiettivo, che è quello di minare le basi della nostra democrazia e della nostra Repubblica". Sezer ne ha approfittato anche per esprimere tutta la sua preoccupazione per la crescente politicizzazione degli ambienti giudiziari.
Parole che sono piaciute poco al premier Erdogan, che ieri si trovava a Washington per incontrare il presidente George W. Bush. Il primo ministro ha negato che in Turchia esista la minaccia del fondamentalismo religioso, sottolineando che il suo governo monitora costantemente la situazione e che l’era della diarchia, ossia del potere politico accanto a quello dei militari, è finita.
Ma nell’ultimo anno e mezzo la situazione è diventata molto tesa. Riforme come il nuovo codice penale e la normativa sulla sicurezza sociale, aspramente osteggiate da Sezer, hanno contrapposto due modi diversi di concepire lo Stato. Quando, nell’aprile scorso, fu da decidere il nuovo governatore della Banca Centrale turca, si arrivò quasi allo scontro istituzionale perché, secondo molti media, Erdogan aveva cercato di metter a capo dell’istituzione esponenti della "finanza verde", vicini agli ambienti religiosi del Paese, e Sezer glielo aveva impedito. Fino alle dichiarazioni, tre mesi fa, del presidente del parlamento, Bulent Arinc, militante nell’Akp, che parlava di necessità "di ridefinire il secolarismo in Turchia".




Yasha Reibman commenta le parole del Papa

Il portavoce della Comunità Ebraica milanese appoggia Benedetto XVI

Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica di Milano, parlando con la «Stampa» ha ieri respinto le frasi dell’ex presidente delle comunità ebraiche, Amos Luzzato, che al Papa chiedeva le scuse e oltre, «segnali diversi». Reibman dice che Ratzinger è un «Papa straordinario con il quale dobbiamo essere alleati per sconfiggere chi vuole distruggere le libertà, compresa quella di religione». Nega che all’Angelus abbia chiesto scusa, «non mi sembra proprio».




Ecco cosa afferma Raixe Venete a proposito dell'autodeterminazione del Veneto

L’indipendeza del Veneto per Raixe Venete non ha nessuna connotazione politica, ecco quanto afferma Davide Guiotto dell’associazione Veneto nostro-Raixe venete, portavoce del comitato organizzatore della "festa dei Veneti": "… Per noi la presenza del mezzo (tanko)è solo una testimonianza di storia veneta recente. Il fatto di 9 anni fa ha perso qualsiasi connotazione politica…".

"Il Gazzettino" giovedì 31 agosto

CITTADELLA La polemica sul mezzo dei Serenissimi che domenica sarà a Villa Rina non ferma gli organizzatori della Festa dei Veneti. "Sbagliato ritirare il patrocinio"

Il Tanko non è simbolo eversivo, giusto esporlo

Bitonci: "No alle strumentalizzazioni". Svegliado: "È solo un trattore mascherato". Guiotto: "È una testimonianza storica"

Cittadella

(M.C.) Nessun dietro front sul Tanko , il mezzo usato dai Serenissimi per l’assalto al campanile di Piazza San Marco 9 anni fa. Alla Festa dei veneti di domenica a Cittadella ci sarà, nonostante il presidente della Provincia di Venezia abbia ritirato il patrocinio all’evento, mentre il collega di Rovigo ci sta pensando.

Lo conferma Davide Guiotto dell’associazione Veneto nostro-Raixe venete, portavoce del comitato organizzatore della festa. "Abbiamo accettato la proposta del comitato che ha acquistato e restaurato il Tanko che verrà portato uno o due giorni prima con un bilico. Verrà scoperto solo domenica alle 10,30. Avrà uno spazio nel piazzale di Villa Rina mentre la festa si svolgerà in centro. Per noi la presenza del mezzo è solo una testimonianza di storia veneta recente. Il fatto di 9 anni fa ha perso qualsiasi connotazione politica. Non polemizziamo con nessuno, ma la decisione della Provincia di Venezia ci ha sorpresi. Tutti coloro che verranno a Cittadella non vedranno nulla di politico".

"Trovo fuori luogo che il ritiro del patrocinio a una manifestazione di tipo popolare che mi pare si cerchi di far diventare politica – è l’opinione di Massimo Bitonci sindaco di Cittadella – La scorsa settimana avevo segnalato a questura e prefettura la presenza del mezzo, non c’è stato nessun diniego. Del resto il Tanko di fatto è un trattore che è stato dissequestrato e acquistato in un’asta giudiziaria pubblica da un privato. Non vogliamo strumentalizzazioni o persone che vengano a Cittadella a polemizzare solo per creare scompiglio ad una importante festa popolare. Una polemica fuori luogo quando c’è stato un indulto che ha liberato molti delinquenti, mentre quelli del campanile hanno scontato, com’era giusto, tutta la pena. Invito alla festa il presidente della provincia di Venezia".

"Considero il Tanko come un trattore mascherato – è l’opinione di Stefano Svegliado, consigliere comunale d’opposizione e coordinatore provinciale di Forza Italia – Non faccio nessuna valutazione politica. Non è per andare contro al sentimento dei veneti, ma le rivendicazioni legate al significato simbolico del Tanko sono completamente errate, antistoriche e pericolose in un momento come questo, dove anche chi faceva della secessione la propria bandiera si sta avvicinando al sentimento sacrosanto dell’unità nazionale".

 



Esplode l'ira degli italiani di Israele

 

Luca Telese (Il Giornale)

Gerusalemme
"Venite pronti per sparare agli Hezbollah, oppure meglio che non veniate".

Appena Francesco Cossiga mette piede nella sinagoga italiana di Gerusalemme per l’incontro con la comunità italiana di Israele, è come se si alzasse un ruggito di rabbia: dopo l’omaggio affettuoso all’ospite, infatti, si leva una raffica di interventi a metà strada tra l’incredulità, l’ira, il dolore. Per le posizioni del governo italiano, per l’ormai famosa passeggiata di Massimo D’Alema, per le posizioni della stampa italiana. C’è David Cassuto, il presidente, che dice senza peli sulla lingua tutti i suoi dubbi sulla linea della Farnesina. E ci sono tre signore anziane che citano uno ad uno gli articoli che le hanno fatte arrabbiare, hanno un piccolo dossier su La Repubblica, e chiedono: "In Italia sta crescendo un sentimento anti-israeliano?". Domande a cui non è facile dare risposta, anche per un presidente emerito, che ha scelto di portare la propria solidarietà proprio in questi giorni di polemiche roventi (su tutte le sue con D’Alema).

Uno di loro grida: "Venite pronti per sparare agli Hezbollah, oppure meglio che non veniate".
L’altra faccia di questo dialogo senza rete, del dubbio assillante e del furore interrogativo, sono la compostezza del lutto e la serenità quasi angelica di un villino discreto nella parte residenziale della città. Quando giovedì la delegazione guidata da Cossiga bussa alla porta, ad aprire c’è un uomo che l’ex presidente descrive così: "Un ebreo, anzi un ebreo polacco, biondo, alto, con gli occhi azzurri, chiari e dolcissimi". Ad aprire quella porta è lo scrittore David Grossman, l’uomo che è diventato il simbolo di tutte le assurdità di una guerra tanto breve quanto terribile: l’uomo che prima aveva promosso gli appelli di solidarietà con le truppe insieme ai due amici Amos Oz e Abraham Yeoshua, e che sempre insieme a loro si era poi speso per un cessate il fuoco nell’ultimo giorno di ostilità. E soprattutto l’uomo che in quelle stesse ore aveva tragicamente perso il figlio Uri, ufficiale della Thsal, colpito da un razzo. Cossiga aveva letto la straordinaria orazione funebre di Grossman pubblicata da La Repubblica, e aveva chiesto di incontrare lo scrittore per manifestargli la sua solidarietà. E Grossman, racconta Alessandro Ruben, consigliere della comunità ebraica e membro della piccola delegazione informale che gli ha fatto visita, aveva acconsentito spiegando: "Non ho voluto vedere nessun politico israeliano, ma sono contento di una visita che arriva da un Paese che amo". Cossiga esordisce senza false cortesie: "Non le racconterò di aver letto tutti i suoi libri perché non è vero, e mia figlia mi ha raccomandato di non fingere di averlo fatto. Sono qui perché riconosco il coraggio di un uomo". Grossman capisce l’italiano, suo figlio lo parlava, in casa c’è anche la moglie, che mostra al presidente le foto di famiglia: Uri ragazzo, riservista della Tshal, a bordo di un carro con la sua calotta di pelle e gli occhiali. Lo scrittore spiega al presidente la sofferenza di una posizione difficile ma consapevole: Sono per la pace. Sono per uno Stato palestinese. E sono per Israele". E aggiunge, per spiegare il sostegno alla guerra in Libano una parafrasi evangelica: "Se mi danno uno schiaffo, rispondo, almeno con una carezza". E poi racconta: "Sono stato quattro anni militare. Mio figlio era comandante di una pattuglia di carristi, era di sinistra, ma ha combattuto, con tutti i suoi umanissimi dubbi, per quello in cui credeva". Cossiga spiega a Grossman le differenze fra il pacifismo italiano e quello israeliano, studia le foto, quel viso gli resta impresso in mente: "Un bambino!", dirà sull’areo che lo riporta in Italia. Così come si porta dietro la serenità degli israeliani che sopportano il dolore. Ad esempio un sorriso, quello di Karnit Goldwasser, la moglie del soldato rapito, che voleva sapere da lui se era vero che l’Italia può mediare con l’Iran. E che alla fine dell’incontro tra il serio e il faceto gli ha detto che sarebbe un perfetto "nonno adottivo". E poi la serenità composta dei Grossman: "Quando vede gente che vive così un dolore così grande, uno come me pensa all’esistenza di Dio e al primato della speranza e dell’amore". Chiede lo scrittore: "Lei è sardo?". E il presidente: "Sì". "Sarò a Cagliari a metà ottobre. Ci possiamo rivedere lì". Poi, estraendo dalla sua libreria una copia (in italiano) di Qualcuno con cui correre, gliela regala: "Mi dirà se le piace". E quando sono sulla soglia per i saluti, la moglie dello scrittore parla ancora di Uri, di se stessa, di come attraversare il lutto: "Dio chiude una porta, ma ne può aprire mille". Nel tempo delle porte chiuse anche questa è fede.