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"Ancora due giorni e Israele avrebbe sconfitto Hezbollah"

 

Gian Micalessin (www.ilgiornale.it 24 agosto 2006) – da Rumaich (Libano del sud)

 

"Gli israeliani mi hanno colpito la casa, ma poco importa. Per quel che mi riguarda potevano anche colpirla di nuovo. Se andavano avanti ancora due giorni ci liberavano di quella gente (gli Hezbollah) , salvavano il Libano".
La voce gira ovunque. In quei bunker, in quei campi dove a dieci giorni dalla fine dei combattimenti il lezzo di morte toglie ancora il respiro, i miliziani di Hezbollah erano allo stremo. "Mangiavano bacche – dice chi li ha visti -, aspettavano la morte". "Due giorni ancora e, credetemi, avrei goduto a spendere i soldi per ripararla. Almeno l’avrei riparata per sempre. Così invece so che succederà ancora".

 

I cristiani di Rumaich sono arrabbiati. Molto arrabbiati. È cominciato tutto qui davanti. Una fattoria come tante in questo villaggio a uno sputo dal confine tra l’inferno di Beint Jbeil a nordest e l’apocalisse di Ait Ech Chaab, un chilometro a ovest. Pierre fa strada sul pergolato, scosta le trecce di tabacco profumato, mostra l’alone nero, il foro nell’impiantito, apre la porta, scende le scale. Lezzo di cenere e morte. Sulla parete un alone di fuoco e schegge, una sindone di sangue, cervella, morte. "Una bimba era lì, decapitata". Pierre mostra il materasso incrostato, incartapecorito, bruciato. "L’altra là, sfigurata". Ancora sangue raggrumato, screziature d’orrore, diapositive di morte impresse nell’intonaco impiastricciato. "La madre senza una gamba, respirava ancora, le ho portate fuori, una alla volta. Quando ha fatto giorno sono tornato dentro, ho trovato la testolina, ho portato via anche quella".

Qui a Rumaich, uno dei cinque villaggi cristiani tra Beint Jbeil e Ait Ech Chaab, la storia della fattoria maledetta la conoscono tutti. È la notte del 20 luglio. Otto giorni prima Hezbollah attacca due jeep israeliane sul confine, a un chilometro da qui, cattura due soldati, ne uccide otto, accende la guerra. "In cantina quella notte ci sono trenta sciiti, sono arrivati il primo giorno e noi gli abbiamo aperto le porte. Sono i nostri vicini, gente disperata come noi", racconta Pierre. Quella notte cambia tutto. Salah Jawed, uno dei capifamiglia, esce al tramonto. Lascia moglie e due figlie ad aspettarlo.

"Vado a controllare se la nostra casa è ancora in piedi, ho dimenticato qualcosa", racconta. Sanno tutti chi è. "Lo conosciamo, è dei servizi di sicurezza di Hezbollah, ma ci fidiamo – ricorda Pierre -, in fondo sua moglie e sua figlia sono nella nostra cantina". A mezzanotte capisce di aver sbagliato. Sulla collina fuori dal villaggio un missile sfiora un elicottero, lo manca. Una jeep ridiscende a fari spenti inseguita dai missili. Quattro ombre saltano giù, fuggono a testa bassa in tutte le direzioni.

I cristiani di Rumaich guardano atterriti. Uno riemerge dalla boscaglia, striscia nel fossato, sbuca tra le trecce di tabacco appese al porticato, si butta dentro. Pierre capisce, urla come un pazzo. "Come ti permetti disgraziato, metti a rischio la vita della mia, della tua famiglia, di tutti gli altri". Lui nega. "Gli apro la porta, lo butto fuori, lui si volta, salta nel fossato, scompare nella notte". Passano pochi minuti. Pierre non ricorda quanti. "All’improvviso sento l’elicottero… L’ha visto, lo sta cercando… Mi sento un po’ in colpa. Non faccio in tempo a finire il pensiero, sento i due missili, la casa che trema, non capisco nulla, solo il calore, le fiamme, le urla nella stanza a fianco quaggiù nel seminterrato. Dentro è la strage, l’orrore. Spengo il fuoco con le coperte, faccio uscire tutti. Là, a terra, c’è solo la sua famiglia. La moglie muore qualche giorno dopo. Lui, farabutto, non si fa neanche vedere. È stato il destino, la punizione per chi ha tradito la nostra fiducia".

Tony Machoul ascolta, si fa il segno della croce. Ha 45 anni, è uno dei più famosi costruttori della città. Tira su avamposti dell’Unifil da qui al mare. Scuote la testa. "Tra Rumaich, Ainata, El Qauzah, Ain Ebel e Debel non saremo in più di quindicimila, ma ci comportiamo con gli sciiti come con dei fratelli. Io ne ho ospitati 60 a casa mia. In cambio abbiamo avuto molto poco. Avremo molto poco. Hezbollah sta già distribuendo i soldi dell’Iran, del Qatar del Bahrain. Noi le nostre case distrutte ce le dovremo ricostruire da soli.

Eppure questa guerra l’hanno voluta loro". Racconta i sei anni passati a costruir fortini bianchi con la bandiera azzurra collina dopo collina. "Davanti c’erano sempre loro, scavavano bunker, tiravano cavi per le linee telefoniche, sprofondavano nella terra tra tunnel e gallerie, si preparavano. L’hanno voluta, l’hanno cercata questa guerra. E ora cantano vittoria perché tanto le case loro non se le pagano".

Anche Tony ha vissuto la sua notte d’ingratitudine e rabbia. "Una notte qualcuno bussa alla porta, mi tira giù dal letto. In strada ci sono altri vicini e, nascosti tra le case, un gruppo di Hezbollah. Hanno già installato le katiusce, le stanno puntando. Noi ci mettiamo in mezzo, li fermiamo. Loro ci puntano le armi addosso. Io vado in bestia. Prendo da parte uno che conosco, gli urlo in faccia. Come ti permetti, sei pazzo, vuoi far morire noi e tutta la tua gente? Discutiamo per un’ora, minaccio di aprire la porta, di buttare fuori i 60 sciiti che ho in cantina. Finalmente arriva l’ordine se ne vanno, ci lasciano in pace. Ma quella notte capisco tutto. Dei loro confratelli se ne fregano, vogliono far radere al suolo anche Rumaich, vogliono farci spazzare via dagli israeliani".

Ad Ain Ebel, cinque chilometri più indietro, alle porte di Beint Jbeil il 60enne Maroun Has Rouni ha poche idee, ma ben chiare. "Li vedi quegli uliveti? Sono i miei, sono 50mila alberi, non ci posso mettere piede da due anni perché quelli ci dovevano scavare i loro bunker, nascondere i loro missili. Ora io maledico gli israeliani per un solo motivo, perché si sono fermati troppo presto. Mi hanno colpito la casa, ma poco importa. Per quel che mi riguarda potevano anche colpirla di nuovo. Se andavano avanti ancora due giorni ci liberavano di quella gente, salvavano il Libano".
La voce gira ovunque. In quei bunker, in quei campi dove a dieci giorni dalla fine dei combattimenti il lezzo di morte toglie ancora il respiro, i miliziani di Hezbollah erano allo stremo. "Mangiavano bacche – dice chi li ha visti -, aspettavano la morte". Maroun mostra la voragine nella casa colpita da un obice israeliano.

"Due giorni ancora e, credetemi, avrei goduto a spendere i soldi per ripararla. Almeno l’avrei riparata per sempre. Così invece so che succederà ancora".




I RACCONTI DELA GUERRA UN SOLDATO SPIEGA CHE COSA SIGNIFICA COMBATTERE CONTRO GLI HEZBOLLAH

I RACCONTI DELLA GUERRA UN SOLDATO SPIEGA CHE COSA SIGNIFICA COMBATTERE CONTRO GLI HEZBOLLAH: "SI LOTTA CASA PER CASA"

"Ro’i si è gettato sulla bomba per salvarci"

Fiamma Nirenstein (La Stampa – 5 agosto ’06)

Gerusalemme, ospedale Hadassa. Israel Friedler ha un bel buco sul braccio destro, anzi due: da uno la pallottola del kalashnikov degli Hezbollah è entrata, e dall’altro è uscita. "Ho avuto fortuna, non ha leso l’osso, solo un po’ il muscolo, ma quello si riforma". Duole? Figurarsi se un soldato dei Golani può dire che gli duole qualcosa. Ha solo sentito una botta che lo ha fatto barcollare, e poi ha perso parecchio sangue. Ma subito gli infermieri da campo gli hanno messo una fascia "e mi sono sentito bene". Era mercoledì, lui ha accettato di uscire dal teatro di guerra soltanto giovedì quando hanno ordinato alla compagnia di cessare il fuoco e tornare. È accaduto nella città sudlibanese di Bint Jbail dove si è svolta una delle battaglie più difficili: otto soldati vi sono stati uccisi, ventidue i feriti. Friedler ha 27 anni, è venuto in Israele dal Brasile nel 1990, ed è già comandante di uno dei tre battaglioni della 51esima compagnia dei Golani: "Spero mi lascino tornare dai miei soldati subito. Non posso pensare che entrano e escono dal Libano senza di me; che combattano senza che io li guidi; so che mi vogliono vedere là davanti, io li conosco, ognuno dei ragazzi ha la sua storia, i suoi punti interrogativi" Le sue paure? "Domande, non paure. Durante la battaglia non hai mai paura. Semmai, prima e dopo. Ma non pensi a morire, pensi solo che non hai altra scelta e combatti. E i miei soldati – sorride Israel – sono coraggiosi". In battaglia gridi in coro, ci si fa coraggio incitandosi? "In battaglia c’è molto rumore" taglia corto Israel. Ma il rumore più cocente e clamoroso è stato, ascoltato in tutta Israel tramite i media, quello di una granata che ha ucciso il suo migliore amico Ro’i Klein, comandante dell’altro battaglione che marciava accanto al suo: "Avanzavamo di pari passo e questo mi dava forza, ci intendevamo in tutto, passavamo molte serate insieme, spesso con le mogli. La battaglia era molto dura. Da parte nostra c’erano già morti e feriti che tiravamo dentro le porte degli edifici mentre ci sparavano da tutte le parti. Avevamo già distrutto parecchi depositi di armi e vari lanciamissili, e ucciso sette Hezbollah. Ro’i mi ha detto alla radio "Da questa parte non va tanto bene". Dopo un pò mi ha anche annunciato "Passo la radio". Sono state le sue ultime parole". Ma quelli che erano vicino a lui, raccontano ben altro, e Israel lo riporta senza enfasi: "Un uomo degli hezbollah ha tirato una granata verso i suoi; lui ha detto "Shema Israel" la preghiera più importante per gli ebrei, quella che proclama l’unicità di Dio, e si è gettato sulla granata per proteggere i soldati". È tutto vero? "Era certo la persona che poteva farlo: silenzioso, deciso, sapeva sempre quello che voleva. Stavolta ha voluto salvare i suoi. Sua moglie Sara con i due bambini è come lui, non si lamenta". Accanto a lui, sul letto dell’Ospedale Hadassa di Gerusalemme con un gran pancione, ascolta senza fare una piega la moglie Dvora. Ma Israel, voi israeliani siete giovani totalmente occidentali, che amano divertirsi, fare musica, stare con la propria ragazza, ridete di tutto e di tutti, vi opponete a ogni idea preconfezionata… Eppure sulla guerra, in particolare su questa, siete compatti, la combattete come fosse la cosa più naturale del mondo e anche da eroi: come se non fosse senso comune in Occidente l’idea che la guerra è la cosa più brutta che gli uomini abbiano inventato dall’inizio della storia.. "Noi in realtà la detestiamo, e molto di più di chi non l’ha mai provata. Si immagini in che stato sono in questi giorni le madri che seppelliscono i loro figli di 18 e 19 anni. Ma due questioni ci costringono ad accettare il combattimento: intorno abbiamo cinquecento milioni di arabi che ci vogliono morti. Con tutti quelli che hanno voluto fare la pace l’abbiamo fatta. In secondo luogo, c’è la casa qui, la mamma, il mio bambino che sta per nascere… C’è Israele, e noi non vogliamo l’Uganda. Devo lasciare che Hezbollah mi uccidano con i missili Fajar? Il segreto è uno solo: non abbiamo scelta". Mentre al lato destro di Israel marciava Ro’y, sul lato sinistro, nel terzo battaglione c’era il suo fratello minore Dani: "Sto sempre anche attento a lui; stavolta era difficile. In genere, passato il pericolo uno dei due manda un sms alla mamma per dire che tutti e due stiamo bene. Stavolta, lui ha scritto "tutto bene" quando io ero già stato ferito. Ora la mamma non si fida più di noi". Lei non pensa mai alle madri libanesi prese dentro questa guerra, fra due fuochi? "Io ci penso, ma Hezbollah non molla i loro figli, li tiene come scudo umano, e viene un momento in cui io devo decidere se mi sparerà anche la prossima katiusha. Adesso, scusi, visto che non sono i vostri figli a essere in guerra, non potreste usare con noi un tono un pò più sommesso? Smettere di sdottoreggiare su una guerra contro il terrorismo che dovreste almeno capire, e in cui invece siamo lasciati così soli?".




«Solo Israele sconfiggerà i fanatici La colpa della guerra è di chi ha blandito Hezbollah»

INTERVISTA AL LEADER MARONITA ROGER BOU CHAHINE
 
di DIMITRI BUFFA (La Padania- 5 agosto 2006)

 
 
Roma – «Sono anni che chiediamo all’Onu, al mondo e all’Europa di disarmare gli hezbollah altrimenti il Libano non sarà mai libero dai condizionamenti esterni di Teheran e Damasco, ma abbiamo visto trattare i leader sciiti in giro per il mondo come degli statisti e non come dei terroristi.. adesso è facile lamentarsi della guerra e dire che Israele sta esagerando, ma io posso assicurarvi che ci sono centinaia di migliaia di libanesi che si augurano che lo stato ebraico la vinca velocemente questa guerra e ci liberi da hezbollah, e questo con tutto che le bombe di Gerusalemme cadono in testa anche a loro, visto che non sono poi così intelligenti».
Roger Bou Chahine è il rappresentante diplomatico in Italia delle Forze libanesi, il movimento cristiano maronita del Libano che fa capo al leader Samir Geagea, di recente liberato dalle segrete dell’ultimo carcere di massima sicurezza in Beirut gestito direttamente da Damasco. In questa intervista esclusiva Chahine mette bene in chiaro soprattutto una cosa: «se non fosse stato per i terroristi palestinesi e i loro campi profughi a metà negli anni ’70, così come in seguito per gli hezbollah negli anni ’80 e anche oggi, il Libano non sarebbe stato mai un teatro di guerra con Israele e nemmeno uno stato ostile che non lo riconosce, visto che già dal 1954 esistevano trattati di pace, almeno venti anni prima di Camp David».
Il solito errore di credere in un’evoluzione politica di una milizia di guerriglieri e terroristi?
«Non ci sono dubbi. Oggi il mondo raccoglie quello che ha seminato. E questo vale anche per l’America: ha ritenuto di promuovere la democratizzazione dei Fratelli musulmani in Egitto e adesso c’è il rischio di uno stato teocratico e di una rivoluzione che rovesci Mubarak, non ha scoraggiato Hamas in Palestina e vediamo i risultati, e adesso c’è il cancro hezbollah».
E che pensi dell¹intervista di ieri di Kofi Annan ad Al Jazeera in cui proprio Hizbullah viene definito un partito politico e non un movimento terrorista?
«Mi ha fatto la stessa impressione di quella che ebbi anni fa dopo avere constatato l’incredibile approccio allo stesso problema da parte della segreteria di stato vaticana».
Cioè?
«Sei anni fa quando il Papa Woytila andò in Libano, mi ricordo il messaggio del cardinal Silvestrini che parlò di loro a tutto il mondo tramite la radio vaticana come se fossero dei frati francescani del sud del Libano».
Molti però condannano questa guerra di Israele e imputano allo stato ebraico troppe vittime civili.
«Il mio pensiero in materia è questo: non sono d’accordo con progetti improvvisati e condotti con l’istinto senza un vero progetto politico per il dopoguerra che verrà. Sinora questa cosa potrebbe rafforzare politicamente proprio Nasrallah, che ha solo 3 mila miliziani armati, ma dietro di loro almeno 400 mila fanatizzati all’odio pronti a usare le proprie case come deposito di missili».
Ma allora che bisogna fare? Tu stesso dici che tentare di recuperarli alla vita civile fu un errore. Combatterli direttamente, sempre tu, dici che è contro producente. E allora che facciamo? Ce li teniamo così come sono?
«No per niente e sebbene la popolazione libanese oggi sia tutt’altro che amica con Israele per logici motivi, io posso assicurati che ci sono centinaia di migliaia di persone nel Nord e nel Sud del Libano che si augurano essenzialmente due cose. La prima è che la guerra finisca presto, ma la seconda è che hezbollah venga annientata da Israele, perché la paura e che se non ci riescono loro, non sarà certo Chirac o Kofi Annan, ma nemmeno Prodi o D’Alema, a disarmarli».
Insomma ci sono dei libanesi che hanno idee che non condividono per citare il vignettista Altan?
«Sì, esiste questa contraddizione».
Come si può uscire fuori da questo stallo?
«La soluzione l’ha già indicata Olmert e Israele sembra propenso ad accettarla: la sostituzione dell’esercito israeliano nella zona sud del Libano con un esercito internazionale pronto a combattere con hezbollah fino alla consegna delle armi».
Non una missione di pace allora?
«Gli hezbollah non si combattono con il pacifismo ma con la forza. Solo che il popolo libanese vede male quella esercitata da uno stato che lo invade ma ne accetterebbe a braccia aperta una internazionale che lo liberi da questo cancro».
Finirà mai l’odio arabo-islamico contro Israele?
«Chiaramente questa guerra lo ha rinfocolato per qualche altra generazione, ma il Libano nello specifico è stato l’unico paese del medio oriente ad avere accettato la convivenza con Gerusalemme sin dal 1954, dopo avere partecipato alla guerra del 1948. Poi noi ce ne saremmo stati tutti in pace a farci i fatti nostri se non ci fosse stata l’invasione dei profughi e dei terroristi di Arafat nel sud nel Libano a partire dalla prima metà anni degli anni ’70 dopo la loro cacciata dalla Giordania in seguito ai fatti del famoso settembre nero del 1970. Da quel momento ci hanno costretto prima loro, e poi gli hezbollah, a subire le conseguenze di una guerra contro quello che loro consideravano il loro nemico, Israele, ma che non era il nostro. Siccome però loro stavano sul nostro territorio noi ci prendevamo le bombe degli uni e degli altri. Questo il mondo deve capire se veramente ama il Libano».
E i paesi arabi moderati?
«Dimostrino di esserlo veramente anche a livello ufficiale e non continuino con questa diplomazia sottobanco con Gerusalemme, per cui i leader parlano con accenti anti semiti quando si trovano in Arabia Saudita, Giordania o Egitto e con toni occidentali quando stanno all’Onu o nelle riunioni come quella di Roma. L’esempio che le masse recepiscono è quello ufficiale e non ipocrita dei loro rais. I popoli arabi sono stanchi di un medio oriente in guerra solo perché l’ideologia islamista e il terrorismo islamico vogliono cancellare Israele dalla carta geografica… e magari sognano l’islamizzazione anche dei cosiddetti paesi crociati… D’altronde noi delle forze libanesi come è noto siamo cristiano maroniti, e ci prendiamo anche noi le bombe di Israele pur non approvando neanche un millimetro di quelle nefande ideologie di fanatismo religioso».



L'asso degli F16 israeliani: seimila missioni

IL COLONNELLO «ALEF» NONOSTANTE TUTTO E’ IMPOSSIBILE NON COMPIERE ERRORI
4/8/2006
di Aldo Baquis (La Stampa)

In questa giornata terribile per Israele, con otto civili uccisi dai missili e tre soldati morti in battaglia, mentre i botti letali scuotono ancora tutto il Nord, entrare nella base aerea di Hazor, vicino a Ashdod, è quasi una vacanza, nel verde degli eucalipti. Gli aerei da guerra F16 riposano negli hangar il muso affusolato e il pensiero di Cana è nell’aria. Ci aspetta il capo della base, il colonnello "Alef", di cui sappiamo tuttavia che ha 41 anni, tre figli e una mamma sopravvissuta alla Shoah. E’ alto, riservato e tuttavia comunicativo. Con estrema semplicità affronta il tema della responsabilità, il principale che gli abbiamo posto, verso i suoi e gli altrui cittadini quando deve ordinare un’azione come quella di Cana, o le tante altre che sono state compiute.

Colonnello, si sentirà forse un po’ sollevato nel sapere che anche dal Libano dicono che a Cana sono perite 28 persone e non 52.
"No, per niente. Tre sarebbero troppe, 52 è male proprio come tre. I morti civili sono per noi sempre un lutto. Vorrei che per tutti fosse così: non ho avuto la sensazione che i nostri morti, ormai circa sessanta, abbiano avuto la stessa attenzione dell’opinione pubblica internazionale, che qualcuno abbia condannato l’assassinio dei nostri otto ferrovieri di Haifa".

Colonnello, perché avete commesso l’errore di Cana, e quello dell’Onu? Si possono compiere errori in cui restano uccisi degli innocenti?
"Purtroppo in guerra è sempre accaduto. Oltretutto, la guerra è sempre circondata da una nebbia che si cerca di dissipare con le informazioni, con la conoscenza, e non sempre ci si riesce. Se decidi di combattere una guerra asimmetrica, in cui il nemico fa uso dei civili, devi affrontare la sofferenza di compiere errori. Comunque, se lei pensa che abbiamo compiuto in queste tre settimane circa seimila azioni in volo, capirà che abbiamo limitato i danni quanto abbiamo potuto".

Colonnello, come è andata la vicenda di Cana?
"Il villaggio era un centro molto importante degli Hezbollah, da là erano già stati lanciati centinaia di missili da svariati edifici compreso quello. Avevamo già cercato di fermarli con vari interventi. Credevamo che la popolazione civile se ne fosse andata tutta. Non ci aspettavamo che ci fossero ancora dei civili".

Perché avete bombardato una casa?
"Sapevamo che quella casa era usata per lanciare i missili".

Scusi, proprio quella casa? Da là dentro partivano i missili?
"Ci sono vari tipi di missili. Quelli grandi vengono immediatamente identificati e, dopo la prima volta, non sparano più. Eliminiamo in un minuto la rampa di lancio. Tutti gli altri, sono piccoli, a volte piccolissimi. Si sparano con lanciamissili che si spostano in macchina o in camion o a spalla. Gli Hezbollah li portano nelle case, in garage e magazzini coperti e sfruttano la gente per poter sparare. Le mostro un video per capire: vede, uno, due, tre missili. Li lasci fare? Se lasci che sparino di nuovo, fra un minuto un altro bambino dei nostri può essere ucciso, la gente può essere fatta a pezzi in tutte le città del Nord".

Non c’è fra i suoi piloti una reazione amara per quello che è accaduto? Non si crea una mancanza di fiducia, una volontà di verificare meglio gli ordini?
"Prima della missione, e anche dopo, c’è sempre una discussione. Ma la fiducia dei piloti negli ordini è intatta: noi combattiamo una guerra per la casa, per la pace e ognuno di noi è consapevole del fatto che Hezbollah ci vuole morti e ci ha attaccato proditoriamente. I miei piloti si fidano e io di loro e della loro motivazione".

Ha cancellato qualche operazione in questa guerra a causa di civili in zona?
"Sì, diverse volte. I piloti stessi possono farlo anche quando sono già in volo. E’ accaduto qualche giorno fa con un giovane pilota: gli ho detto che aveva fatto bene. Penso che la forza morale alla fine sia la chiave della vittoria. Ma se lei avesse cento missili puntati sui suoi bambini e un nemico che usa i civili per impedirle di intervenire me lo dica, che farebbe? Non sparerebbe? Noi non vogliamo niente da nessuno, non aggrediamo nessuno, ma la difesa è la cosa moralmente più giusta del mondo".

Perché avete bombardato per la seconda volta il quartiere di Dahia a Beirut?
"Forse lei non sa che il quartiere di Dahia aveva un recinto intorno guardato da blocchi militari degli Hezbollah, era una capitale nella capitale, piena di armi, di centri di addestramento, di basi di Nasrallah. La scelta comunque è una scelta politica".

E i quattro dell’Onu?
"E’ stato un errore, ripeto, e gli errori possono capitare, comunque, mi sono veramente molto molto arrabbiato quando Kofi Annan ci ha accusato di aver fatto apposta. Questo significa veramente non aver capito nulla di ciò che siamo, di come agiamo. Noi combattiamo contro il terrorismo e basta. Per il resto, abbiamo dimostrato di cercare la pace".




"Noi soldati musulmani contro Hezbollah"

 

di Gian Micalessin (Il Giornale – www.ilgiornale.it)

da Shomera (confine israeliano libanese)
Un battaglione israeliano composto da beduini e circassi combatte senza sosta dall’inizio della guerra in Libano

Li chiamano i guardiani del confine. Sono quelli della 300ª Brigata. "Quelli – racconta il 41enne tenente colonnello Ishai Efroni, vicecomandante dell’unità – che non hanno mai abbandonato la frontiera. Dal ritiro del 2000 controlliamo metà delle linee dal Mediterraneo al Golan: sono ottanta chilometri, ma vi succede di tutto. I due soldati sono stati rapiti a due chilometri da qui, Maroun Ras è di fronte a noi, da due giorni combattiamo ad Aait el Shaab". Ishai Efroni poteva anche fare a meno di questa nuova guerra. Aveva appeso la divisa a un chiodo, abbandonato Israele, il Libano e l’esercito per vagabondare dall’Europa all’estremo Oriente. Poi è tornato, ha rifirmato, e s’è ritrovato al punto di partenza. Il boato alternato di due mortai puntati sulle colline infiammate dalle katiushe spezza di tanto in tanto il racconto di Ishai. Ieri tre suoi soldati hanno perso la vita ad Ait el Shaab. È la terza grande battaglia in questo settore nord occidentale dopo Beint Jbeil e Maroun el Ras. Ishai alza gli occhi al cielo. "Combattere non è come andare a passeggio. Hezbollah è un vero esercito, ma combatte con tattiche da guerriglia. Per combatterli, stanarli, distruggere bunker e missili dobbiamo aprirci la strada lungo sentieri minati, attaccarli mentre sono al riparo di fortificazioni o case abitate da civili. Nei due chilometri da qui ad Aait El Shaab abbiamo trovato venti trappole esplosive: la più grossa era uno scaldabagno riempito con 150 chili di esplosivo. Bastava a far fuori un carro armato e tutto l’equipaggio".
Uno dei vanti della 300ª è il suo battaglione di scout e battitori di pista. "Sono beduini e circassi, musulmani che combattono dalla nostra parte – racconta il tenente colonnello – sono insuperabili nell’aprire la strada verso il nemico o seguirne le tracce". Usano i lama per il trasporto di materiale come gli alpini usavano i muli.
Il maresciallo Yussuf, volto di rughe e pietra, baffi e capelli di carbone, sguardo da assassino generoso, è l’apripista preferito di Ishai. Siede abbracciato al suo Ar 15, gli occhi perduti sulla parete. Venticinque dei suoi 45 anni li ha vissuti nell’esercito, 17 a combattere in Libano. Se gli chiedi che cosa prova a combattere contro Hassan Nasrallah, contro il nuovo Saladino delle nazioni musulmane, Yussuf manco si scompone. "Niente. Per me non è un eroe, i suoi missili hanno ucciso una ragazza di 14 anni del mio villaggio, per me e per tanti musulmani come me è solo un assassino". Se gli chiedi cosa lo sorprende in questa nuova guerra gli occhi s’accendono di stupore. "È incredibile come mimetizzano bunker e rifugi, è incredibile il materiale che usano. Nell’altra guerra non trovavo nulla di simile. A Maroun Ras ho riconosciuto le entrate dei loro bunker solo quando ci sono arrivato sopra. Sono nascoste da vegetazione e terreno fatti di plastica e lattice, ma identici a quelli veri. Sposti un sasso e ti accorgi che è di plastica, come i rami dell’albero, come il tappeto di lattice sulla botola dei bunker". Anche quei rifugi sotterranei sono per Youssuf un mondo nuovo. "Mai viste caverne simili, l’entrata è di un metro, poi scendi e trovi gallerie profonde otto metri collegate ad altri bunker".
E anche in superficie, a sentir Youssuf, non c’è da scherzare. "Una volta non si muovevano così bene, sono molto più bravi a combattere e a sparare, adesso per trovare la pista giusta e arrivargli vicino devo fare molta attenzione". Per Ishai il cruccio maggiore sono le mani legate. "Aait El Shaab lo potevamo spianare con i carri armati e passare avanti, ma dentro ci sono ancora civili. Ci sono anziani e donne, gente senza più nulla da perdere, per non massacrarli dobbiamo andare a prenderci i guerriglieri a uno a uno, anche se lo scrupolo ci costa morti e feriti". Ma a dar retta a questo guardiano del confine la resistenza di Hezbollah è già calata d’intensità. "Non badate ai missili, quelli ci vuol niente a lanciarli, guardate ai loro effettivi, alla loro capacità di combattimento: in ventidue giorni di guerra ne abbiamo uccisi trecento e feriti molti di più, in pratica il venti per cento dei loro effettivi. Molti villaggi di questa zona sono stati già abbandonati. La loro capacità sta diminuendo e per dimostrare di esser ancora vivi concentrano le forze in pochi capisaldi. Il tempo è dalla nostra parte".




Lasciare che Gerusalemme disarmi l'Hezbollah

di Magdi Allam 02 agosto 2006

Da www.corriere.it/allam
Ecco perché tutti noi dovremmo essere onestamente e decisamente al fianco di Israele. Perché Israele ha il diritto di esistere. Perché solo la sconfitta del terrorismo dell’Hezbollah e di Hamas permetterà ai libanesi di vivere in pace e ai palestinesi di avere il loro Stato indipendente. Perché se la sicurezza di Israele dovesse essere messa seriamente a repentaglio e se gli israeliani si dovessero sentire abbandonati e criminalizzati, a quel punto sarebbe veramente la fine della vita e della speranza per il Medio Oriente. Oggi più che mai sostenere Israele significa prevenire la catastrofe generale e schierarsi dalla parte della pace per tutti.

Il nodo che ha portato alla sostanziale paralisi della riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea di ieri e della Conferenza di Roma sul Libano del 26 luglio scorso si può così riassumere: si vuole il cessate il fuoco immediato a tutti i costi o una tregua che rimuova le cause che hanno scatenato la guerra e spiani la via alla pace? Sono ancora molti tra i protagonisti della scena internazionale che faticano o non vogliono comprendere che non c’è affatto un automatismo tra la tregua e la pace. Perché non si tratta di un tradizionale conflitto per ragioni territoriali, economiche o egemoniche, bensì di una guerra ideologica mossa dalla determinazione a eliminare lo Stato di Israele di cui si disconosce il diritto all’esistenza.

Ed è in questo contesto che il livello della reazione militare israeliana è da considerarsi proporzionato alla natura della sfida che si traduce nella drastica alternativa della vita o della morte. Israele non ha altra scelta che prevenire la catastrofe perché è l’unico Stato al mondo che non avrebbe il diritto di replica qualora venisse distrutto e la sua gente sterminata. Eppure questo dato di fatto fondamentale sembra del tutto ignorato o nella migliore delle ipotesi sottovalutato da parte di coloro che si affannano a lanciare appelli per un immediato e incondizionato cessate il fuoco. Passa per un dettaglio che può preoccupare, ma non più di tanto, il fatto che la zona a ridosso della frontiera settentrionale di Israele sia stata trasformata nel fronte di prima linea della guerra santa del regime nazi- islamico iraniano contro Israele, manovrando e armando i burattini dell’Hezbollah, con la complicità del regime tirannico siriano sponsor dei terroristi di Hamas. Così come si ignora pressoché totalmente che gli oltre 1300 razzi e missili di produzione iraniana e siriana lanciati contro le città israeliane hanno distrutto o danneggiato centinaia di case, costretto 330 mila israeliani ad abbandonare le proprie abitazioni.

Coloro che a distanza giudicano la proporzionalità o meno della reazione israeliana basandosi sulla asettica contabilità delle vittime e dei danni, di fatto addossano a Israele due colpe. La prima "colpa" di Israele è di non aver subito un numero ragguardevole di vittime tale da poter competere con quelle libanesi, grazie all’efficienza dei suoi rifugi antiaerei e del sistema di protezione civile. La seconda "colpa" di Israele è di essere caduto nella trappola tesa dall’Hezbollah, costringendolo a colpire dei bersagli civili usati cinicamente come sedi logistiche, depositi di armi e rampe di lancio dei razzi. C’è tanto cinismo e tanta ipocrisia nell’atteggiamento della comunità internazionale. Che sin dal settembre 2004 con la risoluzione 1559 ha chiesto il disarmo dell’Hezbollah, non per fare un piacere a Israele ma perché necessario alla sovranità e libertà dei libanesi, e oggi si mostra disponibile a nobilitarlo come legittima controparte nel conflitto con Israele.

Dal momento che il mondo è impotente a disarmare l’Hezbollah, si ritiene che Israele dovrebbe conviverci anche se si tratta del suo aspirante carnefice. La verità è che tutti sanno che solo Israele può e deve disarmare l’Hezbollah, ma tutti attendono che faccia da solo il "lavoro sporco". La verità è che fino a quando Israele non avrà disarmato l’Hezbollah, nessuna forza multinazionale potrà essere dispiegata. Ecco perché tutti noi dovremmo essere onestamente e decisamente al fianco di Israele. Perché Israele ha il diritto di esistere. Perché solo la sconfitta del terrorismo dell’Hezbollah e di Hamas permetterà ai libanesi di vivere in pace e ai palestinesi di avere il loro Stato indipendente. Perché se la sicurezza di Israele dovesse essere messa seriamente a repentaglio e se gli israeliani si dovessero sentire abbandonati e criminalizzati, a quel punto sarebbe veramente la fine della vita e della speranza per il Medio Oriente. Oggi più che mai sostenere Israele significa prevenire la catastrofe generale e schierarsi dalla parte della pace per tutti.

 




Il Veneto: federalismo o indipendenza?

Il federalismo è una questione interna allo Stato italiano che al Veneto poco interessa.

 

A proposito del pezzo “Il vero federalismo fu quello attuato dall’imperatore Ottaviano Augusto”, pubblicato il 21 luglio su “Il Gazzettino”, ritengo, come esponente del Veneto Serenissimo Governo, di fare alcune considerazioni. Non entro nel merito del concetto di federalismo enunciato nel testo, mi limito a dire che è bene per il signor “D.T.” analizzare correttamente quali siano i capisaldi federalisti ed indipendentisti del Cattaneo e di tutti i grandi teorici del federalismo.
Per quanto riguarda le affermazioni fatte sul Veneto, il Veneto Serenissimo Governo non è per il federalismo né per la secessione in quanto ritiene che il Veneto non è mai entrato legalmente a far parte dell’Italia, ed è tuttora in uno stato di occupazione da parte dell’Italia. Quindi i Veneti prima di tutto devono riappropriarsi del proprio libero arbitrio e decidere in modo libero del proprio destino di Nazione. Ricordiamo che il Veneto è stato per 1200 anni indipendente, e può essere considerato una delle poche Nazioni storiche d’Europa.
Oggi è giunta l’ora in cui il consesso internazionale deve prendere una posizione chiara rispetto al diritto all’autodeterminazione del Popolo Veneto, l’occupazione italiana deve finire e con essa la violazione del diritto internazionale. 140 anni di occupazione non fanno cadere in prescrizione il diritto di un Popolo alla libertà. Il federalismo è una questione interna allo Stato italiano che al Veneto poco interessa.
Il Veneto Serenissimo Governo sta procedendo a livello internazionale per ottenere il rifacimento del referendum del 1866, secondo gli accordi internazionali  che dovevano regolarlo (Pace di Vienna ed Armistizio di Cormons), tutto ciò sostenuto da una raccolta firme

che verrà presentata all’ONU quale garante internazionale del diritto all’autodeterminazione di ogni Popolo.
Venezia, 22 luglio ’06

Il Ministro Consigliere
Del Veneto Serenissimo Governo
Demetrio Serraglia

Riportiamo la lettera pubblicata sul "Il Gazzettino"
Il federalismo a costo zero non esiste e non potrà mai esistere. Il pericolo di una moltiplicazione burocratica, che è indice di una lievitazione dei costi e delle spese, è insisto nei progetti pseudo-federalisti di alcune formazioni politiche del NordEst come la Lega Nord-Liga Veneta, Progetto Nordest, incapaci di cogliere appieno l’essenza profonda dell’istanza decentralista, consistente nella dimunizione della pressione fiscale nonchè nell’offerta di servizi qualitativamente migliore rispetto a quella garantita dallo Stato centrale.

Ma in paese di 20 Regioni, cinque delle quali ad ordinamento speciale o differenziato, può realizzarsi un’equa distribuzione di competenze tra il centro e la periferia con l’indicazione chiara ed espressa di materie da attribuirsi rispettivamente alla competenza esclusiva regionale ed a quella statale, eliminando ambiti di potestà concorrente, fonte di incomprensioni e frequenti conflitti di attribuzione tra lo Stato e l’ente pubblico regionale ? Personalmente credo di no, a causa di una eccessiva presenza di realtà regionali in seno ad un contesto territoriale, come quello italiano, non così geograficamente esteso al pari di altri Stati federali come la Germania o gli Stati Uniti d’America. Nessuno vuole tornare ad un centralismo romano non idoneo a cogliere le specifiche differenziazioni locali, presenti soprattutto sul piano etnico-tradizionale-culturale, ma è necessario, attraverso una riforma costituzionale ad hoc, ridurre prepotentemente il numero di Regioni italiane al fine di cancellare una delle cause, anche se non l’unica, dell’ incremento incontrollato della spesa pubblica. Prima dei vari Umberto Bossi, Giorgio Panto, Franco Rocchetta, tutti con una forma mentis caratterizzata da una visione politica del federalismo e perciò stesso parziaria con evidenti ripercussioni negative per il Veneto sul piano economico-imprenditoriale, solo un personaggio del passato più remoto aveva colto l’importanta del decentramento amministrativo con l’istituzione di un numero di centri funzionali non eccessivamente pletorico e, di conseguenza facilmente controllabile: Ottaviano Augusto, primo imperatore romano (27 a.C-14d.C).

A lui si deve la suddivisione della penisola italica, ad esclusione di Roma e del territorio limitrofo, in 11 Regiones contraddistinte da una perfetta omogeneità etnica-morfologica.

Ovviamente si trattava di partizioni di territorio, effettuate a scopi di censimento e di organizzazione amministrativa e tributaria delle terre pubbliche, che tuttavia possono costituire un punto di partenza per contrapporre la federazione alla fusione e non all’unità della quale parlava il buon Carlo Cattaneo (1801-1869), evitando, in tal modo, proposte secessionistiche ridicole ed imbarazzanti come quelle avanzate in passato dalla Lega Nord di Umberto Bossi ed ora dal c.d.Veneto Serenissimo Governo.D. T.




Vincendo la Battaglia di Lissa i Veneti conquistano il diritto all’Autodeterminazione

Altro che entusiasmo per l’arrivo dei “liberatori” italiani, nel 1866 in Veneto l’unico entusiasmo presente tra il Popolo era quello di quando si sconfiggevano gli italiani: prima a Custoza via terra e poi a Lissa via mare.

Vincenzo Vianello di Pellestrina detto “El Graton”, timoniere della “Ferdinand Maximillian”, che speronò il “Re d’Italia” al grido di "Viva San Marco!".


 

“Un solo colpo dalle navi Austro-Veneto, colpisce la santa barbara del’italiana “Palestro”. La nave in pochi drammatici momenti affonda portando con sé duecentocinquanta tra ufficiali e marinai. È a quel punto, raccontano le cronache, che dai petti degli equipaggi istro-veneti, si leva impetuoso e ripetuto il grido di “W SAN MARCO!”, ad affermare l’orgoglio di essere gli eredi degni di tante vittorie sotto il millenario gonfalone marciano, al quale dedicano la nuova impresa gloriosa.”

Queste poche righe narrano l’epilogo della gloriosa Battaglia di Lissa, che si svolse il 20 luglio del 1866; sì proprio nel 1866 quando l’Italia stava aggredendo la popolazione Veneta per annetterla, e fare così iniziare quel calvario di occupazione e sofferenza che tuttora si protrae per i Veneti.
Ma nel 1866 non ci fu nessuna vittoria italiana, anzi il culmine della guerra fu Lissa, dove proprio la marineria Istro-Veneta batte quella italiana. E per capire con quale foga  combatterono i Veneti contro l’invasione italiana basta elencare le onorificenze loro concesse da Vienna: una medaglia d’oro a Vincenzo Vianello di Pellestrina detto “El Graton”, timoniere della “Ferdinand Maximillian”, che speronò il “Re d’Italia”; altra medaglia d’oro fu concessa a Tommaso Penzo di Chioggia detto "Ociai". Ai marinai veneziani furono concesse ben 43 medaglie d’argento, quattro ai rodigini, sei a quelli di Udine. Basta ciò per capire pienamente che i Veneti il diritto alla libertà e all’autodeterminazione se lo sono conquistati sul campo di battaglia. La retorica risorgimentale italiana può nascondere questi fatti ma certamente non può negarli, e non può tanto meno negare il fatto che il referendum che avvenne sempre nel 1866, in cui i Veneti, padroni del proprio destino, dovevano decidere del loro futuro di Nazione, fu falsato da una serie di violazioni del diritto internazionale sancito dall’armistizio di Cormons e dalla Pace di Vienna (atti questi che dovevano regolare la consultazione).
Oggi è giunta l’ora in cui il consesso internazionale deve prendere una posizione chiara rispetto al diritto all’autodeterminazione del Popolo Veneto, l’occupazione italiana deve finire e con essa la violazione del diritto internazionale.

L’inefficienza della Marina italiana a Lissa fu la cartina di tornasole di quella che sarebbe stato il destino del nascituro Stato italiano: le invidie degli Stati Maggiori e dei vari comandanti; lo scaricabarile innalzato a sistema; l’addossare ogni colpa, non alla propria incapacità, ma ai marinai e militari di truppa. L’Italia è proprio questa: tradimenti, vili aggressioni, inganni, furberie, vittimismo, ecc.

I marinai Veneti in quella battaglia riuscirono a infliggere alla Marina Italiana il più duro colpo che uno Stato possa subire in guerra: oltre alla sconfitta militare, al grido di Viva San Marco la marineria veneta sottrasse all’Ammiraglia italiana la bandiera di guerra, e così per cent’anni ogni marinaio italiano fu costretto a portare i segni del lutto sulla propria uniforme. Altro che entusiasmo per l’arrivo dei “liberatori” italiani, nel 1866 in Veneto l’unico entusiasmo presente tra il Popolo era quello di quando si sconfiggevano gli italiani: prima a Custoza via terra e poi a Lissa via mare.
Il tricolore italiano nel 1866 per i Veneti fu solo un bottino di guerra conquistato durante la Battaglia di Lissa.
Seguendo quanto attestano le cronache del tempo possiamo, senza tema di essere smentiti, affermare che il diritto ad ottenere una libera consultazione per decidere il proprio destino i Veneti se lo sono guadagnato nei campi di battaglia con il sangue e la vita dei propri giovani. Gli organismi ed i vari Stati nel consesso internazionale debbono essere responsabili del loro agire; il loro silenzio non può essere giustificato; il dire “non sapevo” non li libera dalle proprie responsabilità: la libertà di un Popolo non cade mai in prescrizione, e il Popolo Veneto non starà ancora a lungo in silenzio di fronte a chi gli impone un illegale stato di occupazione. 
L’occupante italiano ben si ricordi le parole dell’Ammiraglio austriaco Von Tegetthoff, in merito ai marinai istro-veneti, nel suo rapporto al Kaiser: "Uomini di ferro su navi di legno, hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro!!!"
Anni di occupazione non hanno sopito lo spirito marciano del Popolo Veneto, e tutti coloro che lottano per l’autodeterminazione dei Popoli della Penisola devono capire che l’indipendenza del Veneto avrà un effetto domino rispetto a tutte le istanze nazionali sugli altri territori italiani.
Tutti gli sforzi del Popolo Veneto per riappropriarsi del proprio libero arbitrio si devono concentrare attorno ai lavori per il rifacimento del referendum del 1866 che si svolse al di fuori degli accordi internazionali sottoscritti.
Oggi, 2006, a 140 anni dalla vittoria di Lissa la partita non è ancora chiusa, e il tavolo del diritto internazionale è ancora aperto: il rifacimento, secondo il diritto internazionale, del Referendum del 1866 è la via che aprirà al Veneto la via della libertà e dell’autodeterminazione!

 

Demetrio Serraglia
Ufficio Storico del Veneto Serenissimo Governo



CUSTOZA 1866: «Avanti Savoia!» contro il Veneto

Se questa è la libertà risorgimentale portata dagli italiani, il Popolo Veneto ne prende le distanze, e farà quanto il diritto internazionale fin dal 1866 gli ha concesso per ottenere il proprio libero arbitrio e l’autodeterminazione.

LA VERA STORIA DELLA BATTAGLIA
CUSTOZA 1866: «Avanti Savoia!» contro il Veneto
Altro che “Terza guerra di indipendenza”! Fu l’inizio dell’ennesima aggressione sabauda
 
DEMETRIO SERRAGLIA*


Centoquarant’anni fa in Veneto, il 24 giugno 1866, e precisamente nella località di Custoza, ci fu lo scontro che diede il via all’ennesima guerra di aggressione da parte della monarchia sabauda, guerra che i cosiddetti intellettuali risorgimentali savoiardi hanno fatto passare alla storia come “Terza guerra d’indipendenza”.
Quella della Battaglia di Custoza – episodio che va inquadrato all’interno della guerra austro-prussiana del 1866 in cui si inserì l’Italia per occupare il Veneto – può tranquillamente essere definita come l’inizio della via italiana alla sconfitta: una sottile linea rossa che collega tutte le esperienze belliche dello Stato italiano, partendo dalla guerra del 1866 con le battaglie di Custoza e Lissa; attraverso i nefasti giorni del 1917 con la disfatta di Caporetto, per arrivare all’8 settembre 1943 (data in cui fu reso pubblico l’armistizio con gli alleati).

LA POCHEZZA DELL’ITALIA

Questi episodi ci fanno comprendere la pochezza dell’Italia: uno Stato che si è fondato su un continuo susseguirsi di sconfitte, sconfitte che poi si sono riflesse nel modo di agire politico di tutti i governi italiani sia che essi siano stati monarchici, fascisti, repubblichini o repubblicani.
Il soldati che perirono sul campo d’onore di Custoza dimostrarono che l’indomabile orgoglio Veneto non era terminato nel 1797 con la discutibile presa di posizione “pacifista” e neutralista del Maggior Consiglio (organo legiferante della Veneta Serenissima Repubblica).
La Repubblica di San Marco era viva, se non nelle sue istituzioni lo era nei cuori dei Veneti, e nel 1866 come nel 1848 con la Repubblica Veneta di Manin il Popolo Veneto lo dimostrò nei campi di battaglia a dispetto di ogni “plebiscito”.
La determinazione e lo spirito di sacrifico dei Veneti superò e batté la confusione endemica che guidava lo Stato Maggiore italiano: durante le operazioni di guerra regnava sovrana l’invidia tra generali e la diffidenza tra le varie componenti dell’esercito italiano. Solo l’avverso destino falsificò le vittorie che i ragazzi veneti si erano conquistati in battaglia; ciò avvenne nonostante il sangue profuso per evitare l’occupazione italiana, con le prevedibili nefaste conseguenze che da essa sarebbero derivate. La guerra vide la vittoria della Prussia e la sconfitta dell’Austria e di conseguenza dei Veneti, in questa triangolazione si inserì come il peggiore degli avvoltoi l’Italia.

STORIA DA RISCRIVERE

Molti potranno obbiettare che sui libri di scuola c’è scritto altro, che le truppe italiane furono accolte tra il tripudio della gente veneta; la realtà è un’altra e basta scovarla leggendo i dispacci dell’esercito in cui non è presente tra i soldati Veneti nessun ammutinamento e nessuna diserzione in favore dei Savoia. I fatti parlano chiaro: e non ci si stancherà mai di dire che la cosiddetta “Terza Guerra d’Indipendenza” fu solo una guerra di aggressione persa dall’Italia e che le favorevoli congiunture internazionali (vittoria della Prussia) permisero un’ingiusta occupazione del suolo Veneto, da parte delle truppe italiane, ratificata da un plebiscito svolto al di fuori della legalità internazionale.

MISTIFICAZIONE DELLA REALTÀ

Non si capisce da dove provenga quell’ardire di una certa cultura italianista che continua a sostenere che tutta i Popoli della Penisola accolsero con giubilo l’arrivo delle truppe di occupazione dell’Italia: basta! Quello che la cultura italiana continua a propugnarci è una mistificazione della realtà, un negazionismo paragonabile a quello sostenuto da coloro che negano la Shoa.
Lo stesso procedere degli Stati Maggiori dell’esercito italiano evidenzia che quella del 1866 non era una liberazione ma una guerra espansionistica dello Stato Italiano, l’intelligence italiana di allora tentò di scatenare una rivolta pro Savoia tra le genti Venete, ma tutto ciò fu vano. L’unica cosa che portarono i cosiddetti “liberatori” italiani fu un susseguirsi di tragedie che hanno diviso la nostra gente e causato milioni di morti, emigrazione e diaspora, guerre d’aggressione, campi di concentramento, etnocidi culturali e materiali.
Se questa è la libertà risorgimentale portata dagli italiani, il Popolo Veneto ne prende le distanze, e farà quanto il diritto internazionale fin dal 1866 gli ha concesso per ottenere il proprio libero arbitrio e l’autodeterminazione.

«VIVA SAN MARCO!»

Custoza è solo uno dei tasselli che costellano la millenaria storia Veneta: essa è contraddistinta da un’indomabile fierezza fedele alla tradizione marciana. La cultura veneta, nonostante un continuo etnocidio, non è stata intaccata dal crescente relativismo culturale portato avanti dal giacobismo e dalle sue deviazioni risorgimentali.
Il Veneto è fondato indiscutibilmente sulle tradizioni giudaico cristiane della nostra cultura e il grido “Viva San Marco” durante le vittorie del 1866 né è la dimostrazione più chiara.
*Ufficio Storico del Veneto Serenissimo Governo




In ricordo del 9 maggio 1997

In ricordo del 9 maggio 1997
San Marco patrono di terra e libertà
Gli ideali dell’antica Repubblica vennero riportati alla luce: dignità e orgoglio per le grandi radici

 
Demetrio Serraglia*


Durante la notte tra l’otto e il nove maggio 1997 un commando di otto uomini appartenenti al Veneto Serenissimo Governo prende possesso del Campanile di San Marco a Venezia, liberando e assumendo il controllo della Piazza attraverso un mezzo blindato; questa è la fondamentale apparizione pubblica del Veneto Serenissimo Governo che poi sarà conosciuto attraverso la stampa come “Serenissimi“.
In quelle ore viene fatta rinascere in Piazza San Marco a Venezia la Veneta Serenissima Repubblica dopo 200 anni dal nefando crimine perpetrato dai Napoleonici che violarono i confini Veneti mettendo a ferro e fuoco città e campagne, commettendo nel contempo azioni nefande verso le popolazioni inermi.
Nell’analizzare i fatti che portarono alla fine dell’indipendenza Veneta con un po’ di buon senso storico, ci si va a scontrare con i governanti veneti di allora (1797) che non seppero reagire in maniera appropriata ad eventi che sconvolsero il modo di essere dell’intero globo.
L’errore portante che fu fatto è stato pensare che con la neutralità disarmata si potesse salvare la Patria e tutti i suoi beni materiali e spirituali, portando invece fatalmente i Veneti a perdere tutto. Lo spirito del 9 Maggio rappresentava la volontà popolare, la stessa che, spinta dall’amore per le plurimillenarie istituzioni Venete e la bandiera di San Marco che le rappresenta, ha spinto molti patrioti di tutti i tempi a farsi massacrare ribellandosi agli eserciti invasori prepotentemente entrati nei territori Veneti. Con l’azione del maggio 1997 il Veneto Serenissimo Governo voleva inoltre ribadire con forza che nella Penisola Italiana esiste un Caso Veneto che ha avuto inizio con il fraudolento plebiscito del 1866 che illegalmente, al di fuori delle legalità internazionale, unì il Veneto all’Italia. Di fatti nel 1866 i firmatari (Austria-Italia-Francia) dell’armistizio di Cormons e della Pace di Vienna non rispettarono quanto da loro stessi sottoscritto commettendo un atto di imperio contro il Popolo Veneto e il diritto che esso ha di essere padrone del proprio destino. L’azione del 9 maggio volle “gridare” ai Veneti, al mondo intero e alle organizzazioni internazionali che il Veneto sottostà ad uno stato di occupazione illegale che deve essere sanato quanto prima.
La liberazione di piazza San Marco fu solo l’inizio dell’attività pubblica del Veneto Serenissimo Governo, questa poi continuò presso vari Governi esteri e Istituzioni internazionali per fare in modo che la legalità tornasse nei territori veneti, e che il Popolo Veneto si riappropriasse del proprio libero arbitrio.
Già dai propri documenti costitutivi il Veneto Serenissimo Governo fa presente a tutte le istituzioni internazionali e alle autorità italiane che nessun organo legittimo ha mai consegnato la Veneta indipendenza a chi che sia.
Analizzando la storia Patria dei Veneti la resistenza del popolo al potere dell’occupante dopo il 1797 è stata una costante: dalle Pasque Veronesi alla Repubblica di Manin del 1848-49, alla Resistenza del 1943-45 (quando le autorità italiane consegnarono la provincia di Belluno al Terzo Reich), alla costituzione della Liga Veneta (convegno di Feltre), alla fondazione del Veneto Serenissimo Governo nel 1987, la stessa vicenda del Campanile di San Marco e molti altri episodi stanno a dimostrare che esiste un filo, anche se a volte molto sottile, che ci unisce alla millenaria Veneta Serenissima Repubblica. I governi italiani succedutesi dal 1866 non hanno mai risolto i problemi che qualsiasi Stato dovrebbe risolvere. L’occupazione del Veneto da parte dell’Italia ha significato per le genti venete lacrime, sangue e miseria: la tassa sul macinato, cioè la tassa sulla povertà, ha gettato nella miseria il Popolo Veneto e tutto ciò lo ha costretto ad un’emigrazione di massa negli angoli più sperduti del mondo lasciando famiglie affetti e amici, non bisogna mai dimenticare che il Veneto della diaspora ammonta a 9.000.000 di persone. Inoltre i Veneti sono stati obbligati contro la loro volontà a partecipare ad una serie di guerre d’aggressione volute dai governi italiani.
Il Veneto Serenissimo Governo nel 9 maggio 1997 dà dignità e rinnovato orgoglio al sentimento indipendentista del Veneto, difatti senza pari dignità non è possibile nessuna trattativa per un nuovo assetto costituzionale nella penisola italiana, la pari dignità si conquista con la totale indipendenza e solo in seguito il popolo Veneto sceglierà come affrontare il proprio domani, nessuno può sostituirsi, né l’Italia né l’Europa, alla libera volontà del Popolo.
L’appello che si può estrapolare dall’azione del Veneto Serenissimo Governo è che compito primario di tutti i Veneti che amano la propria terra è quello di accantonare tutte le questioni particolari, ideologiche, politiche e settoriali che sono elementi di divisione e di scontro per ritrovare quell’alleanza che permetterà al Popolo Veneto di contrastare chi dal fatidico 1866 ha tolto ai Veneti la libertà politica, economica, culturale, e ha tentato di togliere anche la dignità.
*Ufficio Storico del Veneto Serenissimo Governo